Il vero nodo gordiano della politica italiana è costituito dai costi e dai privilegi della “nomenclatura”. Risulta pericoloso utilizzare questo argomento per delegittimare la funzione dei partiti all'interno del sistema democratico. L'abolizione del finanziamento pubblico costituisce un patente inganno perchè la sua vera finalità non è quella di bonificare la politica dagli eccessi e dai privilegi del ceto politico. C’è l’obiettivo, di chiara matrice populista, di realizzare un sistema politico che, relegando ai margini la funzione dei partiti, sia in grado di conferire al “leader carismatico” la centralità confiscata ai partiti.
Lascia sgomenti l'assoluta incapacità della nostra classe politica di uscire da questo drammatico “cul de sac” per scardinare il quale non ci si può baloccare nell'illusione che dalla sola legge elettorale possa sortire la grande svolta di cui il paese ha bisogno. Si sta creando una faglia sempre più profonda tra politica e società civile che risulta pericolosa per le stesse sorti della democrazia che, alla lunga, potrebbe non reggere la pressione di una disgregazione sociale sempre più rabbiosa.
Il corto circuito della nostra democrazia costituisce la conseguenza di una "tempesta perfetta", vale a dire di una crisi politica, economica e istituzionale che troppo semplicisticamente siamo soliti imputare alla Merkel o ai satrapi di Bruxelles. Ci sono responsabilità collettive a cui per lungo tempo ci siamo sotratti e di cui oggi l'Europa ci chiede di pagare il conto. Senza quelle responsabilità, oggi avremmo la giusta autorevolezza per non farci dettare l'agenda dai partners europei e per rammentare alla Germania il vecchio monito di Thomas Mann secondo cui "il vero orizzonte della storia non è quello di una Europa tedesca ma di una Germania europea".
La “berlusconizzazione” della politica italiana ha rappresentato il definitivo colpo di grazia inferto al sistema dei partiti italiani che, dopo Tangentopoli, non hanno capito le grandi trasformazioni sociali in corso nel paese. Dobbiamo prendere atto che il ventennio berlusconiano non costituisce l'ennesimo “incidente della Storia”: l'amara verità è che esso rispecchia fedelmente l'identità collettiva di un popolo anarcoide che non ha mai amato lo Stato e che, per questo motivo, non ha mai accettato di rispettare le regole.
Il cittadino non crede più nei partiti, nella partecipazione, nel voto. Il berlusconismo ha esasperato l'atavico disgusto del cittadino per la politica che per vent'anni si è divisa in berlusconiani e antiberlusconiani. Ponendosi al centro del sistema, il Cavaliere ha, di fatto, esautorato la democrazia dei partiti al posto della quale si è imposta una pseudo-democrazia che ha regalato il proscenio ai leader sottraendolo ai partiti, ormai ridotti a vuoti simulacri abitati da fantasmi, peones e lacchè.
Un paese che non tutela il merito è un paese che, dopo avere disilluso i vecchi, ha finito per frodare i giovani ai quali è stato sottratto il gusto di sognare e di credere che il loro futuro fosse il risultato di una competizione giocata alla pari, in modo leale, senza trucchi e senza espedienti. La deriva etica del nostro paese ha reso normale ogni illegalità e, malgrado le continue geremiadi, assistiamo impotenti all'impunità di una casta i cui privilegi diventano l'alibi di un'intera società che seguita ad insegnare ai giovani che è importante frequentare le persone “giuste”, i partiti “giusti” e, perchè no, anche le associazioni “giuste”.
Il merito di Berlusconi è di avere imposto il modello carismatico alla politica italiana di cui è riuscito a modificare sia l'etica che l'estetica. In questo senso, il berlusconismo costituisce un fenomeno politico e culturale che ha contribuito in modo determinante a spazzare via la vecchia egemonia della sinistra rimasta prigioniera di un linguaggio e di un universo simbolico completamente estraneo alle nuove generazioni. Con il suo immenso potere mediatico, il Cavaliere ha determinato anche la metamorfosi della sinistra che, con l'arrivo di Matteo Renzi, rischia ora di tradursi in una omologazione dai tratti beffardi e paradossali.
La “vergogna” di Lampedusa offre lo spunto per capire i motivi per cui le moderne democrazie hanno scelto di mutuare dai totalitarismi quelle tecniche di controllo sociale, nonché quelle ansie securitarie, che finiscono, di fatto, per sconfessare i tratti identitari di un vero sistema democratico. La democrazia dovrebbe, di contro, costituire la base ordinamentale delle cosiddette “società aperte” ma la storia dimostra che essa, per conservarsi, è sovente disposta ad “utilizzare” paure e inquietudini del cittadino. Proprio come i totalitarismi.
Sta finendo un'epoca, nello squallore morale dei protagonisti che hanno calcato la scena di questi anni che un giorno definiremo miserabili. Si respira un clima da basso impero (o da 25 luglio..) fatto di ipocrisie, doppiezze e tradimenti che riassumono efficacemente l'abisso etico di una parte consistente della classe politica che, senza un minimo di dignità, un tempo ha servito il Cavaliere e non esita, ora, a dargli il benservito. Già, la dignità, questa “cosa” sconosciuta in un paese la cui bandiera, come diceva Longanesi, dovrebbe contenere la scritta “Tengo famiglia”.
La scelta disperata di far saltare il governo denota la solitudine di un leader che, accecato dal terrore di vedersi umiliato dalla magistratura, ha perso ogni contatto con il paese, con la società civile e con quell'establishment che, dopo averlo fervidamente sostenuto agli esordi, con il tempo ha capito che la vera battaglia del Cavaliere non era quella della modernizzazione del paese ma quella contro le procure. Solo oggi il Cavaliere ha tolto la maschera dando ragione a chi ha sempre sostenuto che la sua "discesa in campo" fosse dettata solo da interessi personali.