Qualunque governo italiano non può prescindere da alcuni dati che l'opinione pubblica tende, spesso, ad ignorare. I residenti in Italia sono 60 milioni e 484mila. Di questi, nel 2018 lavorava solo il 38,4%, pari a 23 milioni e 215mila: 5 milioni e 319mila erano autonomi, 17 milioni e 896mila erano dipendenti (di cui 12 milioni con contratto a tempo indeterminato). Risulta, pertanto, chiaro che, nel nostro paese, il 61,6% dei residenti non lavora: si ponga mente a questo dato perché si tratta di ben 37 milioni e 269 mila soggetti.
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Il caldo torrido dei prossimi mesi sarà prevedibilmente accompagnato da una temperatura politica che lo scontro con l'Europa renderà perfino incandescente. Senza entrare nel merito delle ragioni addotte dal governo italiano in ordine alle crescenti frizioni con l'Ue, sarebbe utile rammentare alcuni dati che l'opinione pubblica tende ad ignorare. Si tratta di dati ufficiali da cui emerge la fragilità di un intero sistema che inchioda il nostro paese alla responsabilità delle proprie inadempienze. L'Istat ci regala una fotografia che risulta tanto spietata quanto disarmante. Vediamola. I residenti in Italia sono 60 milioni e 484mila. Di questi, nel 2018 lavorava solo il 38,4%, pari a 23 milioni e 215mila: 5 milioni e 319mila erano autonomi, 17 milioni e 896mila erano dipendenti (di cui 12 milioni con contratto a tempo indeterminato). Risulta, pertanto, chiaro che, nel nostro paese, il 61,6% dei residenti non lavora: si ponga mente a questo dato perché si tratta di ben 37 milioni e 269 mila soggetti. Le ragioni sono molteplici. Gran parte di essi non lavora per motivi anagrafici: perché é troppo giovane (cioé, ha meno di 15 anni: sono 8 milioni e 65mila persone), oppure perché é in pensione con più di 64 anni (12 milioni e 796mila italiani al 2018). Stiamo attenti perché, poi, ci sono quelli che avrebbero l’età per lavorare ma risultano inattivi: sono ben 13 milioni e 261mila, pari al 23,2% della popolazione residente. Focalizziamo bene questa parte del paese che, per le cronache, risulta, spesso, invisibile. In questa fetta ci sono i disoccupati che vogliono lavorare e cercano affannosamente un impiego. Si tratta, tuttavia, di una componente marginale: nel 2018 erano solo 2 milioni e 755mila persone, pari al 4,5% dei residenti. Di contro, dei 13 milioni e 261mila inattivi, la grande maggioranza (ben 10 milioni e 100mila persone), pur essendo in età lavorativa, dichiara di non cercare un lavoro e di non essere neppure disposto a lavorare. Risulta, tuttavia, difficile capire quanti, tra essi, dispongano di un impiego irregolare (cioè, lavorano “in nero”) e quanti siano da annoverare tra i cosiddetti “Neet” (Not in Education, Employment or Training), cioè in quella parte di popolazione, ormai rassegnata, che rinuncia sia a formarsi che a cercare un lavoro. In proposito, c'è un dato Eurostat che lascia sgomenti: nel confronto con i paesi dell’Ue (in media 15,3%), l’Italia mostra la percentuale più elevata di Neet dopo la Bulgaria e la Lettonia. Sarebbe, ora, opportuno incrociare i dati sopracitati con quelli che hanno per oggetto la distribuzione di ricchezza nel paese. Secondo Eurostat, nel 2015 il quinto dei cittadini più benestanti deteneva il 37,8% del reddito nazionale, mentre il quinto degli italiani più poveri possedeva solo il 7,2% del reddito nazionale. Naturalmente, non bisogna ignorare la geografia della ricchezza nazionale: secondo l'Istat, al Centro-Nord 1 famiglia su 4 appartiene al quinto più ricco della distribuzione rispetto a 1 su 12 di quelle che vivono nel Sud e nelle Isole. Questa breve disamina dimostra la profonda fragilità di un intero sistema che non può essere in grado di sostenere i gravi squilibri che ne minano le fondamenta. Le cifre dimostrano che esiste una tabe che rischia di consumare il tessuto sociale di una nazione che, anziché svolgere lo sguardo altrove, dovrebbe sforzarsi di capirne le cause. Come é accaduto in tutto l'Occidente, anche nel nostro paese la globalizzazione ha moltiplicato le disuguaglianze determinando un cambiamento del tutto inaspettato della nostra identità collettiva. La vera emergenza del paese, pertanto, consiste in quelle gravi disparità sociali e territoriali che, con questa riflessione, abbiamo cercato di rappresentare al fine di comprendere le ragioni di una debolezza strutturale che potrà essere colmata solo attraverso la prosecuzione di un percorso comunitario che sarebbe esiziale interrompere. Siamo tutti più poveri, é vero, ma ciò é da imputare agli “spiriti animali” di una globalizzazione che, senza l'Europa, rischierebbe di stritolarci. Pertanto, parafrasando lord John Maynard Keynes, l'Unione europea é una pecora che non va uccisa ma solo tosata. Con buona pace di tutti quelli che vorrebbero celebrarne le esequie.
Editoriale apparso su La Provincia lunedì 24 giugno 2019