Come i kamikaze, anche i droni rappresentano un'arma non convenzionale destinata a cambiare definitivamente i connotati della guerra. Risulta fin troppo chiaro che il presunto disimpegno degli Usa, di cui si è favoleggiato in questi anni, durante i quali abbiamo dato per scontato l'immagine di una potenza stanca e dai forti pruriti isolazionisti, rappresenta solo una bufala colossale. Chi pensava che, con Donald Trump, l'amministrazione americana avrebbe ridimensionato la propria presenza nelle zone calde del pianeta, non aveva intuito che c'era in atto solo un profondo cambiamento nella strategia militare.
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Nel nostro paese esiste una parte significativa dell'opinione pubblica a cui piace credere che l'attacco di Trump, che ha condotto all'uccisione del generale iraniano Soleimani, rappresenta una giusta lezione ad una nazione che l'amministrazione americana annovera tra i paesi più pericolosi del pianeta. Si è discusso in questi giorni dell'afasia dell'Europa e della latitanza del governo italiano su una vicenda che ha dimostrato tutta la pochezza delle classi dirigenti del Vecchio Continente. Parimenti, negli Usa una parte importante dell'opinione pubblica ha energicamente disapprovato questa iniziativa che, come ha scritto Joshua Keating, rappresenta una indebita espansione dei poteri militari spettanti al Presidente. In entrambi gli emisferi abbiamo, pertanto, assistito ad un aspro confronto che, vertendo sulla legittimità o meno dell'attacco americano, ha finito per mettere in secondo piano le “modalità” con cui quell'attacco è stato condotto. In realtà, ci sono profili di questa guerra che ci costringono a riflettere sui rischi e sulle implicazioni che ne discendono a carico dell'intero mondo occidentale. Piaccia o no, dobbiamo prendere atto che stiamo per entrare in una fase nuova della storia dell'umanità che si può riassumere in questo modo: come i kamikaze, anche i droni rappresentano un'arma non convenzionale destinata a cambiare definitivamente i connotati della guerra. Risulta fin troppo chiaro che il presunto disimpegno degli Usa, di cui si è favoleggiato in questi anni, durante i quali abbiamo dato per scontato l'immagine di una potenza stanca e dai forti pruriti isolazionisti, rappresenta solo una bufala colossale. Chi pensava che, con Donald Trump, l'amministrazione americana avrebbe ridimensionato la propria presenza nelle zone calde del pianeta, non aveva intuito che c'era in atto solo un profondo cambiamento nella strategia militare. La guerra al terrorismo islamico ha imposto la necessità di un radicale ripensamento a causa della peculiarità di un avversario che, utilizzando un'arma impropria come i kamikaze, ha scatenato una guerra non convenzionale. La proliferazione dei droni costituisce la risposta americana a questa inedita tipologia di conflitto la cui finalità precipua resta quella di instillare terrore nelle società occidentali. La verità è che ci troviamo davanti ad una delle innumerevoli varianti del cosiddetto “soft power” che punta ad innalzare l'immagine degli Usa nella politica internazionale e a rilanciare un prestigio imperiale che, a causa della poderosa ascesa della Cina e della Russia, risultava decisamente appannato. Gli interrogativi da porsi sono, tuttavia, molteplici e, talora, inquietanti. L'impiego incrementale dei droni non può indurci ad ignorare l'aspetto etico di uno strumento bellico che finirà inevitabilmente per incrementare anche l'odio delle popolazioni colpite. Usare la propria superiorità tecnologica per uccidere a distanza, senza il rischio di essere uccisi, rende fondato il timore che possa innescarsi una pericolosa escalation di questa sorta di “conflitto post-umano” nel quale ciascun contendente moltiplicherà l'uso delle proprie armi: più droni significherà più kamikaze, e viceversa, in una spirale sinistra che ci condannerà ad una esistenza piena di inquietudini. Quel drone invisibile che ha ucciso il generale Soleimani, un giorno potrebbe colpire chiunque e ovunque perché, prima o poi, anche il nemico potrà disporre di un’arma che sconvolge le tradizionali logiche militari. Ma c'è un altro profilo su cui sarebbe utile riflettere. Il conflitto con l'Iran e tutte le opzioni militari future di un personaggio imprevedibile come Trump, costituiscono il propellente ideale per tutti i nazionalismi. Se vogliamo, quanto sta accadendo in Europa nella “guerra” agli immigrati rappresenta uno spaccato dell'attuale scenario planetario che vede il presidente Usa interpretare la stessa logica populista, sovranista e tragicamente manichea, che suole dividere il mondo in due grandi schieramenti: da una parte “noi”, dall'altra, “loro”. Si tratta di una logica aberrante che fa strame dei tradizionali valori occidentali e che rischia di condannarci a vivere in un futuro distopico, terrificante, nel quale popoli e genti saranno contrapposti in una guerra permanente. Purtroppo o per fortuna, il futuro che ci attende non è quello di una singola guerra su scala planetaria ma, secondo la definizione di papa Francesco, di una “terza guerra mondiale a pezzetti” che si comporrà di conflitti locali e di agguati terroristici. Per questa ragione, per l'Occidente, si annuncia lunga la notte.