Il ritratto del nostro paese, così come emerge dal 53° Rapporto del Censis sulla situazione sociale in Italia, conferma che è in corso nella nostra società un lento processo di dissoluzione dei valori fondamentali nei quali ci siamo riconosciuti per decenni. L'attesa di un “uomo forte” dimostra che la democrazia viene vista da molti cittadini come un inutile orpello. La politica è chiamata a rendersi conto della gravità di questo momento storico dimostrando la giusta attenzione per il lavoro e ponendo fine, una volta per tutte, ai miserabili teatrini a cui ci ha abituato negli ultimi anni. Non si scherza con la vita delle persone, delle istituzioni e di un'intera nazione.
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Per capire le origini del populismo dilagante nel nostro paese, la lettura del 53° Rapporto del Censis sulla situazione sociale in Italia può essere illuminante. In maniera puntuale e dettagliata, come è sua tradizione, il Censis disegna la radiografia di una nazione sfiduciata, piena di ansie, che ha smesso di credere nei partiti e nella politica. Siamo un paese in cui sono saltati i legami sociali e nel quale, per la prima volta, i figli stanno peggio dei padri. In pratica, ci troviamo “sull'orlo di una crisi di nervi”, come ha detto il prof. Giampaolo Azzoni, docente di Filosofia della società, nonché prorettore vicario dell'Università di Pavia, secondo il quale la vera emergenza del paese resta il lavoro. La mancanza del lavoro, è questo il problema più drammatico a cui nessun partito è in grado di dare una risposta plausibile. La crisi di rappresentanza dei partiti, in fondo, nasce da questa incapacità della politica di governare il crescente impoverimento del cittadino al quale è stato sottratto l'ombrello protettivo del vecchio welfare. Uno dei dati più preoccupanti che emergono dal rapporto del Censis consiste in quel 48% di italiani che si augura l'avvento di un “uomo forte” a cui sarebbe giusto conferire pieni poteri senza le pastoie del parlamentarismo. C'è altro. La speranza messianica dell' “uomo forte” raggiunge il 56% tra gli italiani a basso reddito, il 62% tra i meno istruiti e il 67% tra gli operai. Inutile nasconderlo, siamo un paese che sembra essere stato colpito da un “sisma antropologico” che ha sconvolto la psicologia collettiva di un popolo che vede le nuove generazioni completamente diverse da quelle che le hanno precedute. Giovani e vecchi sono gli attori tristi di una società arrabbiata che vede entrambi accomunati dal medesimo senso di precarietà di un futuro che li condanna, senza volerlo, ad essere antagonisti: senza un dialogo, con due visioni del mondo diverse e, per alcuni versi, perfino antitetiche. Per i padri, la pensione rappresenta un traguardo che non li esonera dalle ansie di un'assistenza familiare sempre più complicata e di un sistema sanitario sempre più costoso. Poiché invecchiano con il tormento di essere un peso, seguitano a custodire il modello di un'esistenza parca e morigerata, scrupolosamente improntata alla cautela e al risparmio. I nostri anziani non sono mai cambiati in questa attitudine a rispettare il futuro di cui sono stati educati a non sottovalutarne le incognite. La crisi dell'ultimo decennio è la conferma che non avevano torto. Non è stato così, invece, per i nostri giovani a cui la crisi ha consegnato una società profondamente diversa da quella vissuta dai padri. I nostri giovani vivono un presente avulso dal passato e sconnesso dal futuro di cui tendono a relativizzarne il senso. Le nuove generazioni non sono in grado di cogliere il filo conduttore che lega le loro vite a quelle dei padri non perché non ne siano capaci ma perché il loro presente si dilata costantemente nutrendosi di attimi che, in modo incessante, generano quelle emozioni fugaci che interrompono la noia. Già, emozioni, sono questi moti dell'animo che catturano i nostri giovani, molto più degli ideali e dei valori che compongono l'universo simbolico dei loro padri che essi tendono ad avvertire come un'entità estranea e priva di significato. In questo risiede la radicalità di una frattura, di uno iato profondo tra generazioni che la tecnologia e i social hanno drammaticamente esasperato ponendo in contrapposizione due mondi con due velocità completamente incompatibili. Il ritratto del nostro paese, così come emerge dal Rapporto del Censis, conferma, pertanto, che è in corso nella nostra società un lento processo di dissoluzione dei valori fondamentali nei quali ci siamo riconosciuti per decenni. L'attesa di un “uomo forte” dimostra che la democrazia viene vista da molti cittadini come un inutile orpello. La politica è chiamata a rendersi conto della gravità di questo momento storico dimostrando la giusta attenzione per il lavoro e ponendo fine, una volta per tutte, ai miserabili teatrini a cui ci ha abituato negli ultimi anni. Non si scherza con la vita delle persone, delle istituzioni e di un'intera nazione.
Editoriale apparso su La Provincia di lunedì 9 dicembre 2019