Morte di un operaio albanese per incidente sul lavoro: il Tribunale di Torino risarcisce i genitori in base al criterio del "valore reale" dell’importo nel paese di residenza dei danneggiati pari ad 1/10 del risarcimento spettante ad un italiano.
Il Tribunale di Torino si è reso protagonista di una sentenza sulla quale risulta utile ed opportuno fare qualche riflessione. La famiglia di un operaio albanese, morto per un incidente sul lavoro, è stata risarcita con una somma di gran lunga inferiore a quella che sarebbe toccata ad un cittadino italiano. I giudici del foro torinese, infatti, hanno deciso di calibrare il risarcimento spettante ai familiari adottando il criterio del "valore reale" (cioè del potere d'acquisto) dell’importo risarcitorio nel paese di residenza dei danneggiati. Ai genitori dell’operaio albanese è stata, pertanto, corrisposta una somma complessiva di EU 64.000 (32.000 a ciascun genitore) mentre con le nuove tabelle del Tribunale di Torino a ciascun genitore sarebbe spettato un importo dieci volte superiore. I criteri adottati dal giudice istruttore si ispirano ad una vecchia sentenza della Cassazione del 2000 la quale si fondava su argomentazioni anche plausibili sul piano logico ma che, calate nella realtà del mercato del lavoro, finiscono per produrre effetti distorsivi e pericolosamente aberranti. Si ponga mente alle conseguenze della citata sentenza. Ogni imprenditore sarebbe incentivato ad assumere cittadini provenienti dal Terzo Mondo. Non solo. Aumenterebbe ulteriormente la competizione sul mercato del lavoro con gli autoctoni, con pesanti conseguenze sul piano della stabilità e della coesione sociale. Non finisce qui. Accogliendo il criterio sancito dalla sentenza in parola, quanto costerebbe ad un’azienda un operaio, un quadro, un dirigente di nazionalità araba, scandinava o del Principato di Monaco che dovesse morire per un incidente sul lavoro? In questi casi, si tratterebbe di incongruenze che offenderebbero il senso comune, l’etica ma anche la logica. Per questo motivo, la stessa Cassazione, emendando la grave lacunosità di tale indirizzo, nel 2006 ha affermato il principio per cui “dal punto di vista parentale, non conta che il figlio sia morto a Messina o a Milano, a Roma in periferia o ai Parioli. Conta la morte in sé, ed una valutazione equa del danno morale che non discrimina la persona e le vittime né per lo status sociale, né per il luogo occasionale della morte”. Poiché appare verosimile che, malgrado tale pronuncia, alcuni Tribunali abbiano seguitato ad applicare criteri risarcitori iniqui e discriminanti, nel 2009 la Cassazione è nuovamente tornata sull’argomento con una pronuncia che si sperava fosse risolutiva ma, evidentemente, così non è stato. In base a questa sentenza, non è ammissibile alcuna differenziazione nel campo dei diritti dei lavoratori i quali non devono subire alcuna disparità di trattamento “indipendentemente dalla cittadinanza, italiana, comunitaria o extracomunitaria”. Risulta, pertanto, incomprensibile come la magistratura torinese abbia disatteso tale pronuncia che, per i motivi anzidetti, risulta a dir poco discutibile.
Il nostro pensiero è che le aule di giustizia non debbano mai prescindere dal dato empirico di una pronuncia per cui risulta opportuno che una sentenza sia indefettibilmente informata a criteri di equità oltre che di mera logica. Non si chiede alla magistratura di farsi carico delle conseguenze sociali ed economiche di una pronuncia perché ci sarebbe il rischio di vedere immolato il Diritto sull’altare della ragion di stato (si pensi al sequestro di un’azienda in odore di mafia e alle immediate proteste delle famiglie degli operai, come avvenne qualche anno fa a Catania). Tuttavia, è giusto che non vengano mai meno i valori fondamentali su cui riposa il nostro ordinamento giuridico che spetta alla magistratura custodire e preservare sempre, senza incertezze e sbavature.