Thomas Farr è un pugile sul viale del tramonto. Il 2 ottobre 1938 si trova a Londra, dove ha raggiunto in gran segreto la donna che ama. In quei giorni, la città sta vivendo momenti di fermento. La missione del primo ministro Chamberlain, di ritorno da Monaco, dove è stato ospite di Hitler, sembra aver dato i suoi frutti: “Peace for our time” è lo slogan del momento. Un particolare stato di grazia sembra essersi impossessato delle persone. Ma, come la storia dimostrerà, sarà solo una breve illusione. E, forse, anche la storia d’amore di Thomas Farr, si dimostrerà tale.
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2 ottobre 1938, domenica.
L’uomo si era alzato dal letto spinto dall’esigenza di bere qualcosa di caldo. Le conseguenze di una nottata movimentata si facevano sentire, e, come al solito, un caffè bollente sarebbe stata un ottimo toccasana. Il pallido sole autunnale che con cautela stava penetrando dalle persiane, illuminava una piccola stanza con poco arredo e molta polvere. Sul pavimento, ben visibile, il titolo a caratteri cubitali del quotidiano del giorno prima: “Peace for our time”. In taglio basso, erano riportate le notizie della football league.
“I Potters quest’anno possono andare forte. Quel giocatore, Stanley Matthews, è davvero un portento.”
Mentre sussurrava queste parole, Thomas Farr cercava di orientarsi alla ricerca della caffettiera. Gallese di Clydach Vale, piccolo villaggio poco distante da Tonypandy, fin da bambino, da quando suo padre lo aveva iniziato ai piaceri del football, Thomas era sempre stato un tifoso dello Stoke City. No, lui e la sua famiglia non erano mai stati tipi da rugby, per intendersi: gioco troppo rispettoso, troppo elitario. Poi, era arrivata la boxe, e aveva messo d’accordo tutti.
Finalmente, Thomas era riuscito a trovare la caffettiera, che adesso stava facendo il proprio dovere sul fuoco. Il pensiero dell’uomo andò alla donna che aveva condiviso il suo letto quella notte, prima di allontanarsi sul far del giorno per tornare ad accudire la madre.
“Diavolo di una donna! Mary Fletcher, tu mi farai impazzire. Peggio, anche di quello stramaledetto Donovan.”
Mary Fletcher era stata il motivo della sua fuga segreta da New York a Londra. Da quando Thomas l’aveva conosciuta, nel marzo dell’anno prima, in occasione della conquista del titolo nazionale dei pesi massimi dell’Impero britannico, Mary “la rossa” era diventata la sua ossessione.
Quella di Donovan, invece, era tutta un’altra storia.
Arthur Donovan era stato l’arbitro che, il 30 agosto 1937, a New York, lo aveva prima illuso e poi mortificato. Dopo 15 riprese combattute allo spasimo, lui, Thomas Farr, “Il Terrore di Tonypandy”, era convinto di essere diventato il nuovo campione del mondo dei pesi massimi. Al momento del verdetto, si era sentito sollevare la mano da Donovan, ma, l’urlo di gioia gli era rimasto in gola. La sua mano venne immediatamente ricacciata giù: nello stesso istante, fu alzata quella di Joe Louis. I cinquantamila presenti allo Yankee Stadium fischiarono a lungo. Solo una maledetta sbadataggine, dirà poi Donovan, scusandosi. Pensare che il tutto non era durato più di cinque secondi; cinque secondi che gli pesarono sulle spalle neanche fossero cinquant’anni.
E, ora, eccolo, Thomas Farr. In un piccolo e squallido appartamento di Spitalfields, nell’East End, come un qualsiasi pachistano del cazzo. In incognito, per di più.
Mentre sorseggiava il caffè, Thomas accese la radio, una Philips a valvole posta sulla credenza. L’annunciatore della BBC stava presentando il prossimo pezzo in programma: la “First Suite”, di Gustav Holst. Non il massimo per i suoi gusti. Le sue orecchie si erano ormai abituate ad altri ritmi: Count Basie, Andy Kirk, per intenderci. Ma, questo passava il convento. Sempre meglio che ascoltare le urla dei vicini, pensò l’uomo.
“Ehi, voi, mi sentite? Fate un po’ di silenzio, maledizione! O preferite che vi venga a trovare e sfasci quella specie di accampamento in cui vivete?”
La voce acuta di Farr stava contrappuntando i fiati di Holst, dando un’impennata sui generis alla marcia che cominciava a fare da sottofondo. Il pugno sbattuto con violenza contro il muro, aveva invece provocato al pugile una fitta lancinante, ricordo del match con James Braddock di pochi mesi prima: una brutta frattura scomposta alla mano destra.
“Maledetti bengalesi, non impareranno mai a comportarsi da persone civili. Si accampano come un esercito in pochi metri quadri e poi bivaccano passando il tempo a dormire. Quando non dormono, urlano, cazzo!”
Thomas Farr aprì le persiane. Ormai, era mattino inoltrato. Mary sarebbe tornata per le diciotto, e lui doveva pensare a come far trascorrere quelle ore. Gli venne in mente la possibilità di una visita in centro città: l’idea gli piacque all’istante. Avrebbe salutato Holst ed i bengalesi, e nessuno avrebbe potuto biasimarlo per quella scelta.
Indossati scarpe e giaccone, Farr uscì dal piccolo appartamento al primo piano. Scese le scale, e si immerse nel flusso della folla che si stava dirigendo verso il mercato del quartiere.
Destreggiandosi fra la folla, l’uomo pensò a suo padre. Si ricordò di tutte le volte che il vecchio lo aveva accompagnato al mercato di Tonypandy, la domenica mattina. Il padre di Thomas era stato minatore alla Cambrian Collery, prima che le riserve di carbone cominciassero ad esaurirsi in tutto il Regno Unito, portando all’irreversibile crisi del settore. Nella memoria dell’uomo, erano ancora vivi i ricordi dei racconti del suo vecchio sul disastro del 14 marzo 1905, quando un’esplosione causò la morte di trentatrè minatori. Fortunatamente, il padre di Thomas, George Farr, fu salvato dai soccorritori senza neanche un graffio.
Quella domenica, una particolare euforia aveva contagiato le persone. I volti, gli sguardi, e persino i corpi di decine di individui sembravano aver riscoperto un incanto antico, sepolto da tempo chissà dove.
Farr non conosceva quasi nessuno da quelle parti: senza contare che la sua presenza in terra inglese era stata nascosta a parenti ed amici. Non gli restava che continuare a lasciarsi trasportare dal quel flusso di eccitazione.
Mentre percorreva le strade che, dall’East End, lo avvicinavano al centro di Londra, quelli che Thomas incontrava erano uomini, donne e bambini raggianti. Il pericolo scongiurato di una guerra imminente, la prospettiva di un periodo di pace, aveva provocato slanci di euforia contagiosa.
Ciò che il pugile aveva letto la sera prima sul Daily Mirror veniva confermato da quei volti. Nell’articolo si leggeva dell’arrivo di Chamberlain all’aeroporto di Croydon. Il Primo Ministro, di ritorno da Monaco, era stato accolto da eroe. Le sue parole, “peace for our time”, era quanto il paese e gran parte dell’Europa voleva sentirsi dire. I due mastini della guerra, Hitler e Mussolini, erano dovuti venire a patti con i loro deliri di onnipotenza.
“Pace per tutti, quindi. E, perché no, pace anche per me stesso, maledizione! Ne avrei bisogno.”
Per la prima volta da mesi, l’idea del ritiro dal ring procurava al pugile meno tormento. Ma, soprattutto, c’era Mary. Non importava quanto sarebbe durata con lei. Fra qualche giorno si sarebbe dovuto rimbarcare sulla nave in direzione New York. Questo, lui lo sapeva molto bene. Ma, quelle ore, se le voleva godere fino in fondo.
Quando giunse nei pressi di Hyde Park, Farr cominciò a sentire i morsi della fame. Vide i rifugi scavati contro le minacce di attacchi aerei, con i lavori abbandonati in tutta fretta.
L’uomo recuperò da una bancarella del pollo con pesce e patatine. Si ritrovò seduto su una panchina a condividere il pasto con un gruppo di operai irlandesi già discretamente alticci, vista l’ora.
Dopo il pasto, il pugile riprese il cammino. Il flusso delle persone intorno a lui gli ricordava il movimento di un’onda gigantesca. Farr si lasciò trasportare da quell’onda.
Nei pressi di Piccadilly, una moltitudine di persone si era accalcata davanti ad un cinema. Farr, a fatica, riuscì a guadagnare l’ingresso della sala. Vi si stava proiettando il trionfale ritorno in patria del primo ministro. Chamberlain, sorridente ed orgoglioso, sventolava davanti allo sportello dell’aeroplano proveniente da Monaco il documento che preannunciava il dono portato in dote al suo popolo; ancora quella frase magica: “peace for our time”. Chamberlain appariva radioso, ed era persino fotogenico. Il filmato non durava più di cinque minuti, ma veniva replicato in continuazione.
Alla fine di ogni breve proiezione, la gente si alzava applaudendo, urlava di gioia e si abbracciava in modo fraterno.
Era come se una divinità benefica, nella sua magnanimità, avesse deciso di rilasciare un profumo miracoloso sugli umani, liberandoli da ogni paura ed angoscia.
Sull’imbrunire, Farr si incamminò verso casa. Notò esposte negli empori le maschere antigas. Pensò alle donne ed ai bambini costretti ad indossarle, ma riuscì prontamente a scacciare quelle immagini. Era la pace, finalmente. Una semplice parola aveva prodotto il miracolo.
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L’orologio segnava le diciannove e cinque minuti. Da circa un’ora, lo squallido appartamento di Spitalfield era tornato ad ospitare il pugile. I dirimpettai erano stranamente silenziosi. L’uomo si immaginò decine di bengalesi riversi sul pavimento in preda al sonno.
Thomas aspettava la sua Mary. La donna gli aveva promesso che lo avrebbe raggiunto alle diciotto.
“Alle diciotto sarò da te, Tom.” Questo, aveva detto prima di uscire, quella mattina.
Mentre continuava a guardare dalla finestra, Thomas Farr bisbigliò alcune parole.
“Tutta quelle persone ancora per le strade, nonostante il buio. Mary si sarà attardata a festeggiare. Si, sarà sicuramente andata così. Fra non molto sarà fra le mie braccia. Non c’è motivo per dubitarne.”
Una voce dentro di lui gli sussurrava di gustarsi quel momento, e di gustarselo fino in fondo. Mary sarebbe arrivata tra poco. Avrebbe bussato con quel suo tocco inconfondibile. Lui le avrebbe aperto, e si sarebbero amati per tutta la notte. Si, sarebbe andata proprio così. L’uomo si percepì leggero, come mai gli era accaduto prima.
La pace. La gente euforica. Che domenica! La sensazione di essere parte di qualcosa di molto più grande: un sentimento difficile da definire.
Un particolare stato di grazia, ecco. Si, uno stato di grazia.
E, quando compare, ad uno stato di grazia ci si affida. Anche se può non aver niente a che vedere con la realtà. Perché, forse, è solo un’illusione. E, le illusioni, non sono la realtà. Ma, a quei momenti, si rimane disperatamente aggrappati. E si vorrebbe che non svanissero mai. O, non tanto presto, almeno.
“Fra poco, Mary arriverà. Riconoscerò i suoi passi. Sentirò bussare alla porta. Le aprirò, e ci ameremo per tutta la notte. Non c’è motivo per dubitarne…”