La società italiana è profondamente cambiata. Una riflessione amara e disincantata per capire come siamo cambiati. La recessione sta seminando il panico. Il cittadino ha paura di tornare povero senza accorgersi che da tempo, ormai, siamo diventati più poveri: nell'anima e nello spirito.
Forse è proprio vero che si stava meglio quando si stava peggio. Basta scorrere le cronache per rendersi conto dell’imbarbarimento del costume, del gusto, dello stesso linguaggio del cittadino, sempre più becero e sprezzante. Da bambini venivamo ammoniti a comportarci in modo educato con chiunque. Il turpiloquio era rigorosamente bandito perché era contrario al “galateo” che rappresentava il primo mansionario del bravo cittadino. Il maestro delle elementari, con aria grave, ci insegnava che il “rispetto delle istituzioni” iniziava alzandosi dalla sedia all’arrivo di ogni adulto. Era un’Italia ingenua, post-contadina e piccolo borghese, che si dischiudeva tra le paure di una trasformazione tanto veloce quanto indecifrabile negli esiti. Solo oggi, a posteriori, siamo in grado di tracciare un profilo delle nostre mutazioni identitarie. Gli economisti seguitano a ricordarci che, per la prima volta dal secondo dopoguerra, le nuove generazioni saranno più povere delle precedenti. Finisce così per sempre l’inganno della crescita infinita e si disvela compiutamente la vera natura del cosiddetto “turbocapitalismo” che, secondo i suoi cantori, avrebbe dispensato felicità a tutti i popoli del pianeta. L’economia arretra e tutti nutriamo il terrore di tornare poveri. In realtà, la paura della povertà materiale ci distoglie dal pensiero dell’altra povertà, ben più grave, che ci affligge da tempo: quella del costume e dell’anima del nostro paese. L’attuale recessione non è certamente responsabile di quello che siamo diventati. Di contro, la crisi potrà rendere più chiara ed intelligibile la nostra vera identità, abilmente occultata dai veli dell’opulenza. Abbiamo perso il gusto dell’ironia, dell’arguzia, ci siamo terribilmente incupiti ma, soprattutto, abbiamo smarrito il senso della coerenza. Ammettiamolo: abbiamo colpevolmente riposto il “galateo” ed il “rispetto delle istituzioni” della nostra infanzia. Il vecchio genitore che autorizzava il maestro ad essere energico con il proprio figlio è scomparso da tempo perché il cittadino ricusa chiunque osi giudicarlo. Da lì, fino a salire ai gradini più alti della nostra quotidianità, ogni ambito risulta ammorbato da una nuova patologia sociale: la rozzezza e l’arroganza. Non c’è campo che si sottragga alla regola. Siamo passati da Calvino a Federico Moccia, da Fellini a Carlo Vanzina, da Montanelli a Emilio Fede. Per tacere della politica. Il migliore dei nostri politici di oggi potrebbe, al massimo, fare da portaborse a Moro, Nenni, Berlinguer, Spadolini, Almirante. Riconosciamolo: abbiamo creduto di essere ricchi per non ammettere di essere poveri. La televisione ha contribuito a sdoganare definitivamente il cattivo gusto, sublimandolo. I nostri figli che guardano i reality si annoiano a scuola perché sono ebbri di computer e tv . La scuola perde il confronto con le nuove tecnologie e, chi insegna, avverte sempre più la netta sensazione di versare acqua in un otre sfondato. La laurea, che un tempo conferiva prestigio, oggi produce frustrazione. Per chi ha studiato è triste imbattersi nella spocchia dei “cafoni”, come Flaiano definiva i “servi arricchiti”, caricatura di una borghesia “lampadata” che non ce la farà mai ad essere “illuminata”. Siamo cambiati profondamente, basta rovistare tra le miserie della nostra quotidianità. Ci siamo perfino pentiti di avere desiderato la democrazia dove non c’era. Oggi si fa sempre più forte la tentazione di rimpiangere i totalitarismi in Urss, Albania, Jugoslavia. Loro di là, con le loro dittature sanguinarie, e noi di qua, tranquilli e serafici. L’Islam che bussa alle porte dell’Occidente fa perfino rimpiangere il comunismo che aveva la virtù di starsene quieto tra i propri confini. La verità è che abbiamo perso la scommessa di credere che, diventando ricchi, saremmo stati più felici. Ora sappiamo che non è così. Forse dovremmo ripassare le vecchie lezioni delle elementari per capire che la ricchezza di un paese sta nell’avere un’anima. Oggi il nostro paese non ce l’ha più. E’ questo, e non la recessione, che ci ha reso davvero più poveri.