Nel nostro paese, il calcio resta lo sport più popolare. Trattandosi di uno sport di massa, non possiamo continuare a baloccarci nell'illusione che il razzismo presente nelle curve non rispecchi il razzismo presente nella società. Per quanto tempo ancora dobbiamo recitare questa farsa? Pertanto, piaccia o no, c'è una domanda che ogni bravo italiano dovrebbe avere il coraggio di porsi, senza fingere di adontarsene: siamo diventati un popolo razzista? Si tratta di una domanda che non possiamo più eludere adducendo pretestuosamente la notoria generosità degli italiani o citando, in modo specioso, i numerosi esempi di solidarietà o di integrazione esistenti nel paese.
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Il manager di un'azienda inglese, Anthony Burke, è stato licenziato subito dopo essere stato arrestato per aver mimato il gesto della scimmia contro un giocatore brasiliano che si accingeva a battere un calcio d'angolo durante il recente derby di Manchester. Il fatto risale a sabato scorso. Dieci giorni prima, a Torino, la calciatrice nigeriana, Eni Aluko, comunicava la sua decisone di lasciare la Juventus perché stanca di “essere trattata come una ladra nei negozi”. Ha confessato il suo disagio al quotidiano inglese “Guardian” dicendo, fuori dai denti, che in tema di integrazione e tolleranza in Italia siamo “in ritardo di almeno vent'anni”. Per troppo tempo abbiamo sottovalutato e sottaciuto il problema del razzismo negli stadi perché tutti conoscevamo le reali dimensioni del fenomeno. Nel febbraio 2013 il magazine inglese “FourFour Two” chiese a cento calciatori professionisti un parere anonimo sul razzismo nel calcio italiano. Il risultato fu sorprendente: il 36 per cento dei calciatori aveva assistito ad un commento razzista da parte di un collega. Risulta, pertanto, semplicistico credere che, nel mondo del calcio, il razzismo sia circoscritto alle tifoserie: le stesse esternazioni di alcuni presidenti (Cellino e Lotito) dimostrano che si tratta di un problema che si tende ad ignorare proprio perché tutti i protagonisti del calcio ne sono coinvolti. Nel nostro paese, il calcio resta lo sport più popolare che, ancora oggi, malgrado la crisi, continua a movimentare una quantità spaventosa di denaro. Trattandosi di uno sport di massa, non possiamo continuare a baloccarci nell'illusione che il razzismo presente nelle curve non rispecchi il razzismo presente nella società. Per quanto tempo ancora dobbiamo recitare questa farsa? Pertanto, piaccia o no, c'è una domanda che ogni bravo italiano dovrebbe avere il coraggio di porsi, senza fingere di adontarsene: siamo diventati un popolo razzista? Si tratta di una domanda che non possiamo più eludere adducendo pretestuosamente la notoria generosità degli italiani o citando, in modo specioso, i numerosi esempi di solidarietà o di integrazione esistenti nel paese. Lasciamo, per una volta, che siano gli altri a giudicarci visto che, in questo campo, nessuno ha mai avuto occasione di sentire un razzista ammettere di esserlo. Al contrario, è facile sentirlo esordire vezzosamente con “premesso che non sono razzista”, puntualmente seguito da un profluvio di invettive contro gli stranieri: naturalmente quelli più poveri e di colore. Fino a qualche decennio fa, nessuno avrebbe immaginato questa deriva culturale. Colpa della globalizzazione (come sempre..): da popolo pieno di emigranti, in poco tempo ci siamo trasformati in un popolo pieno di immigrati. In più, ci siamo impoveriti. L'impoverimento degli ultimi anni ha determinato una frattura sociale che ci ha indotti a credere che la nostra comunità si componga di due parti contrapposte: da una parte, ci siamo “noi”, con la nostra lingua, la nostra cultura, le nostre tradizioni; dall'altra, ci sono “loro”. Sono i “barbaros”. Si badi, “barbaros”, in greco, non significa straniero, come si crede comunemente: significa “balbuziente” (che balbetta). I non italiani sono barbari perché stentano a parlare un lingua che non li appartiene: a molti fa specie sentir parlare tanti ragazzi di colore con l'accento lombardo, laziale o campano. Sono italiani e, soprattutto, “si sentono italiani”. Il razzista di casa nostra usa definire “buonismo” qualunque riflessione che abbia per oggetto l'inclusione, la solidarietà, la tolleranza: per lui sono valori ormai desueti che appartengono ad una retorica d'altri tempi. Se vogliamo capire le ragioni di questa tragica metamorfosi identitaria, dovremmo ripartire da un celebre interrogativo di Karl Popper che, per lungo tempo, abbiamo improvvidamente trascurato: una democrazia può essere tollerante con gli intolleranti? Ripartire da questa domanda può aiutarci a capire che il vero “buonismo” di questo Paese è stato quello di aver garantito l'impunità a tutti gli innumerevoli Anthony Burke che, ogni giorno, continuiamo a vedere in azione non solo nel calcio ma in un'intera società che seguita colpevolmente a volgere lo sguardo altrove.
Editoriale apparso su la Provincia di lunedì 16 dicembre 2019