Pier Paolo Pasolini la sera del 12 dicembre 1969 è a casa di Michelangelo Antonioni con Alberto Moravia; riceve la notizia della strage e nella notte tra il 12 e il 13 scrive Patmos, un’orazione civile che trasuda indignazione e turbamento la cui struttura compositiva segue il principio dell’alternanza di tre voci: quella di S. Giovanni che scrive l’Apocalisse proprio nell’isola greca del titolo, quella dello stesso Pasolini e quella della cronaca dei fatti di Piazza Fontana. Il risultato è una piccola biografia incendiaria che rifiuta la notizia che trasforma le vite umane in numeri.
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“Ogni città, ogni stato debbe reputare inimici tucti coloro che possono sperare di poterle occupare el suo” (Niccolò Machiavelli). Leonardo Sciascia, nel suo romanzo del 1971 Il contesto, assegna al suo protagonista Amerigo Rogas il ruolo di colui che si “arroga” di indagare seguendo il principio scientifico dell’analista e lo indica come colui che “aveva dei principi, in un paese in cui quasi nessuno ne aveva”. L’indagine illuminista, basata su processi intellettuali, gli consente di giungere ad una congettura indimostrabile ma plausibile: quella della vendetta del singolo che ammazza i giudici per rivalersi dell’ingiusta condanna subita, determinata da un errore giudiziario. I suoi superiori, però, lo riorientano – utilizzando e distorcendo la testimonianza simbolica di inermi cittadini debitamente plagiati – verso gli ambienti della sinistra extraparlamentare, nel tentativo di fortificare la strategia della tensione messa in atto per volgere il paese verso un regime autoritario. Lo Stato, di cui Rogas è un fedele servitore, in realtà è il mandante e l’agente criminale che ostacola il suo lavoro, lo manipola, lo dirotta a fini utilitaristici. Il contesto e la sua versione cinematografica Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi, delineano uno spazio plumbeo in cui prende forma la fisiognomica di un potere metafisico, kafkiano, mortifero. Un contesto che agevola la mistificazione, la menzogna e alimenta il falso indiscutibile al punto che la verità – non quella vera ma quella vendibile - si può costruire utilizzando il giornalismo come un manganello, il proprio giornale come strumento di propaganda al servizio di un viscido e untuoso padrone: non sempre chi dirige qualcosa lo dirige veramente; direttore non vuol dire esercitare il controllo sul proprio lavoro e quello altrui. Sbatti il mostro in prima pagina (1972) di Marco Bellocchio si apre con i titoli di testa che scorrono sulle immagini - girate dal vero in 16mm. - di un comizio del MSI – DN animato da un giovane Ignazio La Russa con folta capigliatura; seguono – ad opera del “Collettivo del Cinema Militante” – le riprese degli scontri dell’11 marzo 1972 a Milano. Il fatto di cronaca attorno a cui ruota la sceneggiatura del film è utilizzato - dalla propaganda giornalistica e dalle ragioni del potere - come elemento di condizionamento dell’opinione pubblica. La tecnica di produzione dell’assassino della giovane borghese – individuato e “costruito” in un anarchico, un sovversivo, un disadattato animatore di disordine all’interno dei uno dei tanti “gruppuscoli” sciasciani (quelli de Il contesto) – è una vera e propria lezione di semantica applicata alla realtà. Il giornalista Roveda (Fabio Garriba), dipendente di un giornale di destra, viene mandato alla conferenza stampa degli anarchici al fine di essere aggredito e pestato in quanto provocatore. L’epilogo già scritto (nelle intenzioni) campeggia sulla scrivania del direttore Bizanti (Gian Maria Volontè) sotto forma di titolo di prima pagina pronto per le rotative, in attesa della telefonata di conferma; l’esito non è quello sperato, il titolo accartocciato con disappunto e velato rancore.
Ad un certo punto, in Sbatti il mostro in prima pagina, su una scrivania nella sede degli anarchici, vengono inquadrate le copie della quinta edizione dell’inchiesta La strage di Stato (condotta da un gruppo di militanti della sinistra extraparlamentare tra il 13 dicembre 1969 e il 13 maggio 1970) sui fatti successivi alla strage di Piazza Fontana. Tutto ha inizio con le esplosioni delle bombe alla Fiera campionaria e alla Stazione Centrale di Milano il 25 aprile e sui treni (8 e 9 agosto) attribuite agli anarchici. Segue la morte del poliziotto Antonio Annarumma durante lo sciopero generale del 16 novembre 1969 a Milano. il 29 novembre la manifestazione nazionale dei metalmeccanici a Roma si svolge con i nervi a fior di pelle, non si segnalano incidenti ma gli scioperi si moltiplicano e paralizzano la produzione. All’inizio di dicembre si registra una breve tregua fino a quando i giornali italiani segnalano che alcuni documenti pubblicati sul “The Guardian” – indicano presenza e azione di agenti dei colonnelli greci operanti in Italia. Il mattino del 12 dicembre “il Giorno” – quotidiano dell’ENI – esce con un titolo conseguente: “L’on Almirante per una soluzione alla greca”. Nel tardo pomeriggio, alle 16,37, la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana lascia tra le macerie e il sangue 17 morti e 88 feriti (agricoltori che nel giorno di mercato si incontrano e contrattano). A Milano viene trovato un altro ordigno inesploso alla sede della Banca Commerciale in Piazza della Scala; a Roma altre bombe esplodono alla Banca Nazionale del Lavoro (16 feriti) e sull’Altare della Patria. Nella notte che precede l’arresto di Valpreda si consuma un’altra tragedia: la morte di Giuseppe Pinelli - la “diciottesima” vittima - ferroviere anarchico di 41 anni che precipita da una finestra del quarto piano della Questura di Milano dopo esservi entrato la sera del 12 dicembre; il suo fermo si è protratto illegalmente, senza cioè la necessaria convalida dell’autorità giudiziaria. In Romanzo di una strage (2012) di Marco Tullio Giordana - opera basata sulla suggestiva tesi delle “due bombe” avanzata da Paolo Cucchiraelli nel libro Il segreto di Piazza Fontana nel 2009 - il dialogo (che precede il finale) tra Luigi Calabresi (Valerio Mastandrea) e il Prefetto Federico Umberto D’Amato (Giorgio Colangeli) in stretto collegamento con l’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni, è rivelatore di come la verità sia qualcosa che esiste nella teoria, non nella prassi. Dal dialogo emergono chiari segnali indiziari (ipotesi, non certezze) sulla conoscenza degli eventi in atto. Calabresi chiede perché non si è intervenuto in tempo; il Prefetto replica chiedendogli se davvero crede che uomini dello Stato abbiano potuto procurare una tale carneficina; poi, di fronte al dubbio del commissario che l’apparato abbia coperto tutto, il Prefetto sentenzia risoluto: “Favole! Sia la sua che la mia. Entrambe molto suggestive. Come nelle favole c’è sempre un fondo di verità… ma quel fondo – lei capisce bene – non lo si può dire. Perché la guerra non è finita commissario… anzi, comincia ora. Il bello deve ancora venire; siamo tutti al fronte: chi a fare il lavoro pulito… chi quello sporco”. Il film di Giordana è l’unico che fa riferimento alle molteplici morti “incidentali” di testimoni e/o persone a conoscenza dei fatti in grado di testimoniare ai successivi processi per la strage: Alberto Muraro, testimone contro Franco Freda nel processo per la bomba allo studio di Enrico Opocher a Padova il 15 aprile 1969; Armando Calzolari tesoriere del Fronte Nazionale di Junio Valerio Borghese, presente ad alcune riunioni pre-12 dicembre, trovato morto affogato in un pozzo il 28 gennaio 1970; Vittorio Ambrosini autore di due lettere indirizzate al Ministro degli Interni Franco Restivo, il 13 e il 15 dicembre, in cui accusa direttamente Ordine Nuovo, precipitato dal settimo piano della clinica in cui è ricoverato il 20 ottobre 1971.
Una “guerra” – quella evocata da D’Amato – che, forse, spiega, come, per lungo tempo, il cinema (escluso quello militante) non si sia mai direttamente occupato di questi fatti, se non in maniera indiretta, surrogata in una serie di soluzioni, estemporanee, lontane nel tempo. In Quelli della calibro 38 (1976) di Massimo Dallamano l’iconografia delle esplosioni (stazione di Porta Nuova, mercato di Porta Palazzo a Torino) è ricalcata – con un’aderenza scenografica realmente disturbante – sulle terribili immagini delle riprese, effettuate dopo l’esplosione, nella banca di Piazza Fontana. In La polizia ha le mani legate (1975) di Luciano Ercoli il commissario Matteo Rolandi (Claudio Cassinelli) incrocia, l’indagine su un’esplosione all’albergo Parco dei Principi di Milano. La bomba, che esplode “per errore” nell’hotel, è destinata ad un traliccio (si evoca la morte di Feltrinelli – legando Piazza Fontana e l’editore). Nel film la bomba di Piazza Fontana, i suoi retroscena, il coinvolgimento dell’Ufficio Affari Riservati (qui Servizio Informazioni) sono continuamente evocati. Il Ministro chiede al funzionario del Servizio Informazioni chi sono i colpevoli e questi risponde: “Che colore vi sarebbe utile in questo momento?”; la verità si fabbrica, l’opinione pubblica si orienta. Le immagini - Duomo di Milano il 15 dicembre 1969 - dei funerali delle vittime di Piazza Fontana scorrono sullo schermo in un ufficio della Questura. La polizia ha le mani legate - oltre agli episodi, alle dichiarazioni più conosciute su Piazza Fontana - surroga - con gli occhiali riconosciuti dal commissario come appartenenti a un terrorista - l’episodio del manico della borsa riconosciuto da Cornelio Rolandi come quello appartenente alla valigia dell’attentatore trasportato con il suo taxi nel tardo pomeriggio del 12 dicembre. Le bombe di quel giorno d’inverno sono solo il lampo più luminoso, devastante, destabilizzante di un processo che – a partire dal 3 gennaio 1969 – ha già scosso l’Italia con 145 attentati: circa uno ogni 3 giorni.
La messa in scena dell’interrogatorio di Giuseppe Pinelli - seguendo lo schema descritto dagli autori de La strage di Stato – è presente nel pamphlet horror-sociale-politico Faccia di spia (1975) di Giuseppe Ferrara. Al momento in cui Pinelli viene messo a confronto con il testimone che lo coinvolge (Nino Sottosanti, fascista infiltrato nei gruppi anarchici e sosia di Pietro Valpreda – qui mostrato solo di spalle), Pinelli alza lo sguardo e dice: “Sei tu, allora è come pensavo. La bomba è stata una provocazione… e vi spiego anche come l’avete consegnata…ma questa volta vi faccio saltare tutti, vi faccio saltare…”; dopo l’incalzare, sempre più frenetico, delle accuse e la relativa ribellione di Pinelli, ad un certo punto, parte un colpo di karate (da mano ignota) sul collo dell’imputato che si accascia sulla sedia e cade a terra. Il film di Ferrara utilizza il fuori campo e non mostra ciò che accade successivamente: il corpo di Pinelli rientra in scena riverso nel cortile della questura e avvicinato dal giornalista de “l’Unità” Aldo Palumbo. L’interrogatorio di Pinelli costituisce solo un breve frammento del segmento (17 min. circa) del film dedicato ai fatti italiani intercorsi tra l’autunno caldo del 1969 e il 17 maggio 1972 (omicidio del commissario Luigi Calabresi, la “diciannovesima” vittima di Piazza Fontana). L’ossessione di Feltrinelli, l’interrogatorio di Pinelli, le colpe di Calabresi, la ragion di Stato… è in questo quadro politico-storico-ideologico allucinato che il cinema declina i frammenti di rappresentazione di quegli eventi il cui convitato di pietra, ovviamente, è rappresentato dal fuori campo dell’ufficio al quarto piano della Questura di Milano, pochi minuti prima della mezzanotte del 15 dicembre. Tre Ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli è un cortometraggio in 16 mm. b/n, della durata di 25 min., realizzato da Elio Petri nel 1970 in cui un gruppo di attori (Gian M. Volonté, Giancarlo Dettori, Renzo Montagnani e altri) – seguendo la lezione di Bertold Brecht – irrompe su un set, si prende la scena e improvvisa, lavorando sulla ricostruzione di alcune ipotesi investigative. Raro esempio di instant movie militante, il lavoro di Petri mescola, arbitrariamente, teatro, cinema, giornalismo dando vita ad una controinchiesta audiovisiva, di carattere testimoniale, veicolata da una regia quanto mai oggettiva. Un Gian Maria Volonté abbigliato come un assistente qualsiasi ci introduce dopo il ciak di apertura, nella rivisitazione delle tre ipotesi fatte dalla polizia sulla morte di Giuseppe Pinelli. Segue la rappresentazione teatrale delle tre ipotesi di morte. Il tono del cortometraggio è caustico e tende a sottolineare, con sarcasmo, le inverosimiglianze, le imprecisioni e gli omissis degli atti della magistratura. Al termine di ogni versione l’attore interpretante Pinelli si alza dalla sedia e parla in prima persona raccontando la sua morte (sempre secondo gli atti giudiziari). Ad esempio la prima versione si chiude così: “Dicono che io anarchico Pinelli mi sia alzato per stendermi e con un balzo felino mi sia buttato fuori dalla finestra”, segue il “tuffo” fuori dalla finestra, mentre Volonté si rivolge alla macchina da presa e dice: “Ecco il balzo felino dell’anarchico Pinelli. Balzo felino, parole testuali usate dal Questore di Milano per descrivere il salto di Pinelli nel cortile”. Seguono le altre due versioni sulla morte, poi compare nuovamente il ciak con su scritto “Titoli Pinelli” che apre alla lettura di testi e titoli dei quotidiani riportanti il racconto del suicidio.
Pier Paolo Pasolini la sera del 12 dicembre 1969 è a casa di Michelangelo Antonioni con Alberto Moravia; riceve la notizia della strage e nella notte tra il 12 e il 13 scrive Patmos, un’orazione civile che trasuda indignazione e turbamento la cui struttura compositiva segue il principio dell’alternanza di tre voci: quella di S. Giovanni che scrive l’Apocalisse proprio nell’isola greca del titolo, quella dello stesso Pasolini e quella della cronaca dei fatti di Piazza Fontana. Il risultato è una piccola biografia incendiaria che rifiuta la notizia che trasforma le vite umane in numeri. Il 12 dicembre del poeta di Casarsa non si esaurisce con quest’orazione civile ma - tra la fine della lavorazione de Il Decameron (1970-71) e l’inizio delle riprese de I racconti di Canterbury (1971-72) - collabora con il gruppo della sinistra extraparlamentare Lotta Continua alla realizzazione del film 12 dicembre. Invitato dal leader della formazione Adriano Sofri per girare un documentario di denuncia, Pasolini accetta perché intravede nell’operazione la possibilità di raccontare l’innocenza perduta del Paese. Le divergenze tra le due personalità - in merito alle direttrici del cinema militante - iniziano sin da subito così che viene chiamato a fare da mediatore Goffredo Fofi. Il documentario è pronto per il 1972 ed è presentato al XXII° Festival di Berlino con I racconti di Canterbury. Il film appare sin da subito il tributo di un “padre” ai suoi “figli” per augurare loro di fare quella rivoluzione che lui ha mancato. L’apertura di 12 dicembre, però, è tutta dedicata a Piazza Fontana e rimangono negli occhi e nella mente – nel giorno del primo anniversario della strage - le immagini di cittadini avviliti, indifferenti, taciturni (ben lontani da loquacità, scontri verbali e confronti a ridosso degli eventi) che cercano in ogni modo di sfuggire il microfono. Le dichiarazioni dell’avvocato di Cornelio Rolandi, dello stesso taxista, dell’avvocato di Lotta Continua nel processo del giornale contro Calabresi, del medico che accolse il corpo di Pinelli all’ospedale e di Aldo Palumbo - il primo ad accorrere sotto le finestre della Questura da cui è precipitato il corpo dell’anarchico - confluiscono tutte nella straziante e severa testimonianza di Licia Pinelli e Rosa Malacarne (moglie e madre di Pinelli). Le due donne sono riprese da Pasolini con pudore, delicatezza e compassione commoventi; le risposte alle sue domande sono pietre che non possono lasciare indifferenti. E’ anche per questo motivo che il film non porta la firma di Pasolini che in una registrazione del 22 giugno 1972 dichiara: “Gli avvocati che l’hanno visto mi hanno detto che era pericolosissimo, che mi avrebbero messo in prigione”. Di quanto stagnante e pervasiva sia la vicenda di Pinelli nell’immaginario collettivo e cinematografico italiano ne è testimonianza il film Processo per direttissima (1974) di Lucio De Caro che mescola, scriteriatamente, la strage sul treno “Italicus” – 4 agosto 1974 nei pressi della stazione di San Benedetto Val di Sambro (BO) - la morte di Giuseppe Pinelli e il processo Lotta Continua-Calabresi. Pinelli diventa Stefano Baldini (Michele Placido): fermato per la bomba sul treno, muore in Questura settantadue ore dopo, alle 23,44 del 22 aprile; un giornalista è il primo che lo scopre; alla sorella taxista ne danno notizia gli stessi giornalisti svegliandola in piena notte (così come avvenne per Licia Pinelli); il Sostituto Procuratore Maino – titolare delle indagini - viene rimosso dall’incarico per questioni di turno (come avvenne nella realtà per Ugo Paolillo); il brigadiere Bendicò spiega così l’accaduto: “Tutto sembrava normale quando abbiamo visto il Baldini diventare pallido, si è afflosciato sulla sedia e poi è scivolato a terra come un sacco… non abbiamo fatto in tempo ad intervenire”.
Pubblicato su “L’ORDINE” dell’8 dicembre 2019 – La Provincia di Como. Ringraziamo l’autore per la gentile concessione.
Fabrizio Fogliato – Critico Cinematografico e Storico del Cinema