Negli anni Cinquanta gli italiani cominciano a migrare (ventiquattro milioni in poco più di quindici anni). Nella grande migrazione interna, molti sono coloro che si muovono in clandestinità; altrettanti quelli che scelgono di espatriare. A complicare le cose c’è ancora in vigore una legge fascista che - emanata nel 1939 per bloccare l’urbanesimo e favorire l’agricoltura - stabilisce che il cambio di residenza può avvenire solo per chi può dimostrare di avere un lavoro nel luogo in cui desidera allocarsi e che alle aziende (sia private che pubbliche) è impedita l’assunzione di chi ha la residenza in un comune diverso da quello in cui è sito il posto di lavoro.
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Negli anni Cinquanta gli italiani cominciano a migrare (ventiquattro milioni in poco più di quindici anni). Nella grande migrazione interna, molti sono coloro che si muovono in clandestinità; altrettanti quelli che scelgono di espatriare. A complicare le cose c’è ancora in vigore una legge fascista che - emanata nel 1939 per bloccare l’urbanesimo e favorire l’agricoltura - stabilisce che il cambio di residenza può avvenire solo per chi può dimostrare di avere un lavoro nel luogo in cui desidera allocarsi e che alle aziende (sia private che pubbliche) è impedita l’assunzione di chi ha la residenza in un comune diverso da quello in cui è sito il posto di lavoro. Il pregiudizio che alligna nelle popolazioni del Nord (non è raro trovare a Milano o Torino scritte del tipo: “Non si affitta ai meridionali”, oppure più subdole come “Non si affitta a famiglie con più di due figli”) si propaga in città che vedono ampliarsi, in tempi contratti, la loro popolazione a dismisura; le amministrazioni del Nord si trovano impreparate di fronte ad un fenomeno ben diverso, nei numeri, rispetto alle previsioni e figlio di un benessere che i meridionali – con il loro lavoro – rendono possibile ma di cui non potranno mai godere. (lo racconta Milano, oh cara (1963) scritto da Bettino Craxi e diretto da Paolo Pillitteri). In questa trasformazione fuori controllo le prime vittime (colpevoli) sono i giovani che vedono svanire sotto i loro occhi valori e ideali, sommersi da un cascata di banconote che inonda le citta dando vita ad una sperequazione allarmante. Indossare jeans, fumare sigarette, bere wiskey, giocare a flipper, ascoltare il rock‘n’roll nei juke-box (Urlatori alla sbarra (1960) è il film di Lucio Fulci che dà il via alla carriera di Adriano Celentano), sono comportamenti considerati devianti: incrinano i rapporti tra padri e figli, definiscono l’incomunicabilità tra generazioni. Alle porte del miracolo economico i giovani che vivono un’esistenza sempre più piena di beni materiali manifestano il loro desiderio di evasione a livello immateriale: fumetti “neri”, fotoromanzi, e cinema con i modelli maledetti d’oltreoceano James Dean e Marlon Brando.
Quella di Febbre di vivere (1953) di Claudio Gora – opera che prelude all’avvento del boom economico - è una gioventù che non può che emulare i comportamenti di un’Italia egoista, miserevole, narcisa, senza speranza che sguazza e gode nell’amoralità. L’inferno addosso (1959) di Gianni Vernuccio è girato con l’intenzione di registrare la realtà: mette a fuoco il crimine giovanile come una forma di ribellione estrema (la pellicola finisce nel tritacarne della censura e viene subito condannata all’oblio). Un reportage sulla solitudine e l’alienazione dei giovani nella metropoli divisi tra emozioni forti e bombardamento pubblicitario che incita ai consumi e all’acquisizione di modelli di importazione: la scena dell’accordo criminale è collocata all’interno di un bar in cui si gioca a flipper tenendo in mano un bicchiere di coca-cola; sullo sfondo giovani ballano attorno al juke-box. Guendalina (1957) di Alberto Lattuada racconta, contemporaneamente, la ribellione incruenta di una giovane borghese e la sua condanna all’infelicità causata dai genitori. Nel film c’è un gruppo eterogeneo di giovani che, durante l’estate in Versilia, si organizza autonomamente il tempo libero, ha facile accesso ai beni di consumo americani (Coca-cola, flipper, juke-box…), balla il rock‘n’roll e si da appuntamento in luoghi esclusivi come bar, gelaterie e spiaggia, lontano dal controllo di famiglie e adulti.
Mentre il mondo borghese si organizza e sperimenta il crimine sia come forma di ribellione sia come megafono del proprio malessere, nelle periferie urbane avviene la progressiva nascita dei quartieri dormitorio in cui si polarizza la popolazione migrante: analfabeti alle prese con un lavoro precario e spesso usurante con figli che flirtano con il sottobosco criminale, unica possibile via di uscita dalla miseria. Trascorrono le giornate divisi tra prostituzione e piccoli furti; trovano nello scontro fisico l’unica possibilità di sentirsi vivi; vedono a poche centinaia di metri dalla loro miseria il benessere piccolo-borghese; rincorrono - prima ancora che la felicità economica - l’integrazione in una realtà che li respinge. Pier Paolo Pasolini dà voce a questi giovani del sottoproletariato che sognano il riscatto anche con lo sport povero della boxe per rincorrere il mito di Nino Benvenuti (oro alle Olimpiadi di Roma 1960). Consumano un quotidiano esercizio della violenza tra pari che si esaurisce nel giro di “notti brave” (La notte brava (1959) è il film di Mauro Bolognini sceneggiato da Pasolini a partire dal secondo capitolo del suo libro Una vita violenta), e che oscilla pericolosamente tra la guasconeria e il crimine. Giovani, privi di tutto: modelli di riferimento, rappresentanza politica, riconoscibilità di classe ed esempi virtuosi. Si abbandonano ad una deriva volgare e crudele in cui la violenza diventa l’unica voce ascoltata dal mondo degli adulti e degli altri. Anche la controparte (quella borghese e benestante) di questi giovani, comincia a macchiarsi degli stessi crimini usando la violenza come antidoto alla noia. I quotidiani, nelle pagine di cronaca, cominciano a riempirsi di articoli che parlano di gesti di violenza compiuti da giovani di “buona famiglia”. La stampa, non trova niente di meglio che parlare di “teddy boys” - facendo un uso erroneo del termine di provenienza inglese che identifica alcune bande di adolescenti che si vestono all’ottocentesca in stile edoardiano. I teddy boys nostrani sono vestiti con jeans, giubbotti di pelle nera, girano in motocicletta e trascorrono le loro giornate tra scontri fisici, molestie ai passanti, atteggiamenti strafottenti, agguati alle coppiette appartate in automobile, piccoli furti e rapine. L’opinione pubblica spaventata intende normalizzare il fenomeno e individua le giuste strategie per comprare queste anime ribelli al suo conformismo. I teddy boys della canzone (1960) di Domenico Paolella - storia di un gruppo di giovani che vuole mandare in onda un trasmissione televisiva clandestina; fermati dalla polizia, liberati, vengono assunti dalla televisione stessa e omologati al sistema - diventa paradigma di questo ragionamento. Per Pasolini i teddy boys – che racconta con Elio Petri e Tommaso Chiaretti sceneggiando Le notti dei teddy boys (1961) di Leopoldo Savona - sono i figli di “Un paternalismo sciocco e di una presunzione pedagogica”. Le responsabilità sono quelle di padri assenti e accecati dal benessere e dal carrierismo a cui i figli rispondono in modo sguaiato e brutale: sfogo all’insofferenza e all’incattivimento di una società che non cerca neanche di capirli ma che li etichetta come pericolosi, crudeli e immorali.
Il 1962 rappresenta l’anno del passaggio di consegne tra i teddy boys e i Mods. Questi ultimi - nuovamente di matrice inglese - rappresentano il primo modello di cultura giovanile organizzata e di moda legata al rispetto di regole ferree e incontrovertibili. La loro ribellione non è istintuale ma ragionata: fanno largo uso di anfetamina con cui si producono in vere e proprie maratone di ballo, si pongono come arroganti, violenti, sessisti e maschilisti. Hanno come riferimento musicale i Beatles e nei Rockers i loro nemici (con cui consumano una memorabile battaglia con migliaia di partecipanti sulla spiaggia di Clacton il 26 Marzo del 1964). In Italia, come da copione, la moda si distorce: i Beatles sono troppo famosi e vengono disprezzati dagli emuli nostrani, i quali non rispettano le regole della moda cool inglese ma si limitano a replicare modelli preesistenti, apportando, ad esempio, alcune varianti al modo di vestirsi alla teddy boys e trovano in un presunto pugliese (di origini libanesi) Richy Shayne – divenuto famoso nel 1966 con l’incisione della canzone “Uno dei mods” scritta da Migliacci/Mantovani/Meccia - il loro mood di riferimento. Salgono agli onori della cronaca a seguito dell’inaspettato successo de La battaglia dei Mods (1966) di Franco Montemurro, il più estremo dei musicarelli italiani interpretato dallo stesso Richy Shayne. In nessun altro musicarello la violenza è mostrata in modo così esplicito con tanto di sangue, cadaveri, sesso disinibito; sullo sfondo uno scontro generazionale brutale e diretto. In realtà dietro ad ogni modello trasgressivo si nasconde il desiderio di conformismo piccolo-borghese, l’accesso a quel benessere che appare come un miraggio e la volontà di annnegarsi nell’anonimato della massa. La sequenza finale del film La corruzione (1963) di Mauro Bolognini mostra un gruppo di giovani - intenti a seguire le note e le percussioni di un ipnotico hully-gully - che si muove all’unisono seguendo la musica in modo meccanico e asettico. I corpi si agitano frenetici in movimenti ripetitivi e ossessivi: un rito che ha qualcosa di ancestrale e che racchiude al suo interno un vuoto pneumatico di difficie definizione che sa tanto di metafora della società del tempo.
Fabrizio Fogliato – Critico cinematografico e Storico del Cinema; articolo apparso su L’Ordine 30 Dicembre 2018.