La rabbia sociale che si è diffusa nel paese collide con i valori posti a fondamento della nostra democrazia nei confronti dei quali il cittadino denota indifferenza e, talora, disprezzo. Parole come solidarietà, fratellanza, inclusione, spesso vengono vilipesi e bollati di “comunismo” con un'acredine che non ha precedenti nella biografia di questo paese. Eppure, si tratta di valori liberali, cattolici: meglio, di valori universali. La verità è che siamo davanti ad una nuova egemonia culturale che possiede abiti mentali, modi di pensare e di esprimersi che sono lontani dalla cultura tradizionale del paese ma da cui si evince un cambiamento che sarebbe pericoloso sottovalutare.
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Dopo il crollo delle ideologie la cultura occidentale si è baloccata nell'illusione di un definitivo trionfo della democrazia e dei valori liberali. In quest'ottica, anche l'ingresso della Cina sui mercati mondiali era da intendersi come il segno del definitivo approdo del pianeta al libero mercato: per Fukuyama, eravamo davanti alla “fine della storia”. Senza il freno delle ideologie, il “turbocapitalismo” avrebbe reso inutile l'intervento correttivo dello Stato dato che il “gocciolamento” (il cosiddetto trickle down) avrebbe favorito un'equa distribuzione tra le classi sociali di tutta la ricchezza prodotta dal sistema economico. In tutti questi anni la politica è rimasta inerte, quasi ammaliata dalla forza incantatrice del nuovo verbo che, in alcuni casi, ha perfino goduto dell'avallo delle classi intellettuali, orfane del marxismo. La “crisi della politica” nasce da questa incapacità delle democrazie di arginare l'egemonia culturale di quegli anni durante i quali è stata incoraggiata la falsa illusione di una società in cui la ricchezza era alla portata di ogni cittadino, divenuto “imprenditore di se stesso” e, in quanto tale, libero di dispiegare il suo talento, con coraggio e spregiudicatezza. Nel nostro paese le inchieste di Tangentopoli contribuirono ad alimentare il discredito della politica. L'intero sistema dei partiti ne uscì con le ossa rotte. Il grado di corruttela emerso dalle inchieste provocò, infatti, il disincanto di milioni di militanti e di cittadini i quali, da quel momento, smisero di credere nei partiti tradizionali. Dopo Tangentopoli, nacque il partito “liquido”: le vecchie sezioni furono soppiantate dai circoli elettorali, più snelli ed economici; la burocrazia di partito fu drasticamente ridotta; il vecchio giornale di partito fu condannato alla totale irrilevanza. Sia pure in modi e in tempi diversi, anche la sinistra finì per subire questa profonda metamorfosi. Le inchieste giudiziarie sfiorarono, senza travolgere, il ceto politico della sinistra italiana il cui orgoglio identitario, unito agli esiti meno nefasti dei processi, non consentì di cogliere i profondi cambiamenti che avvenivano nel corpo sociale. L'Italia degli anni Novanta non era più quella del decennio precedente ma nella sinistra italiana mancava la percezione che la crisi dei partiti fosse un fenomeno ormai irreversibile di cui il berlusconismo rappresentava un segnale da non sottovalutare. A distanza di anni, ancora oggi una larga parte della sinistra italiana stenta a capire che il berlusconismo rappresenta una sorta di “autobiografia” della nazione, il condensato di un'identità collettiva che ha sempre fatto fatica a recepire e fare propri i valori della democrazia. Da questa difficoltà interpretativa di quegli anni nasce la difficoltà di comprensione di quanto sta accadendo oggi. Crisi della politica, crisi dei partiti e populismo rappresentano due facce della stessa medaglia che obbligano a prendere atto che l'unica, vera emergenza esistente nel paese è di natura culturale. La rabbia sociale che si è diffusa nel paese collide con i valori posti a fondamento della nostra democrazia nei confronti dei quali il cittadino denota indifferenza e, talora, disprezzo. Parole come solidarietà, fratellanza, inclusione, spesso vengono vilipesi e bollati di “comunismo” con un'acredine che non ha precedenti nella biografia di questo paese. Eppure, si tratta di valori liberali, cattolici: meglio, di valori universali. La verità è che siamo davanti ad una nuova egemonia culturale che possiede abiti mentali, modi di pensare e di esprimersi che sono lontani dalla cultura tradizionale del paese ma da cui si evince un cambiamento che sarebbe pericoloso ignorare. Ci troviamo davanti ad un vero e proprio corto circuito della nostra democrazia che, negli ultimi decenni, ha sconfessato se stessa ritenendo “normali” la povertà delle periferie, le disuguaglianze sociali, i privilegi delle élite e perfino la corruzione che finisce sempre per ricadere sui più meritevoli. Per battere il populismo, la democrazia deve capire le ragioni della rabbia e dell'odio di cui si nutre il suo nemico. In caso contrario, la Storia ci condannerà ad un'altra, lunga notte.
Editoriale apparso su La Provincia del 23 settembre 2019