Per gentile concessione dell'autore, proponiamo un brano del romanzo “Negli occhi del nulla”, storia di un medico che diventa paziente. Una narrazione intensa e struggente dalle cui pieghe affiora, prepotente, la poesia della vita.
Dopo il risultato della PET e la conferma istologica dell’Istituto bolognese tornai da Umberto per riepilogare la mia condizione patologica. Evitai le carrettate di ottimismo che l’ematologo era pronto a scaricarmi addosso. Gonfiavo i polmoni di coraggio fino al più remoto alveolo, ma eludevo le facili, abbondanti e coloratissime verniciature di euforica positività.
Maledetto puntino.
Quella macchietta nera troneggiava in mezzo allo scarabocchio del mio corpo, ricordandomi amaramente che avevo un nemico da combattere, un nemico piccolo ma insidioso, un minuscolo ricettacolo di radioattività che poteva corrodermi lentamente fino a distruggermi.
Grazie, lo so, sono affetto da una grave malattia. Guaribile? Certo! Però dentro le mie viscere mi porto a spasso un tumore, un tumore piccino, all’apparenza quasi insignificante, ma tremendamente velenoso.
Bisognava affrontarlo subito, impostare il primo ciclo di chemioterapia. Dopo il terzo avrei ripetuto la PET per apprezzarne i risultati. Cominciavano a risuonare nella mente nomi di farmaci che più di vent’anni fa— durante il tirocinio post-laurea in Clinica Medica — avevo inoculato in tanti pazienti senza parsimonia nelle vene a volte pervie a volte trombizzate. Allora intuivo il dramma di questi ammalati, come giovane medico mostravo tutta la disponibilità, la comprensione, l’umanità e l’entusiasmo. Forse quel giovane incamiciato poco più che ventenne, portatore in corsia di energia, di freschi sorrisi e di buone parole, rappresentava per loro un grande aiuto ed un importante conforto. Tuttavia per me restavano dei pazienti, oggetti per amplificare la mia esperienza, leve per sollevare la mia professionalità.
Oggi mi trovo dalla loro parte, sono entrato nel gruppo a dannarmi l’anima in cerca di una qualsiasi sopravvivenza pur di allontanare la signora armata di falce, pur di restare con le mie figlie.
Gli altri potranno volerti bene e aiutarti, ma non capire fino in fondo il tuo dramma. Neanche i medici e gli infermieri potranno capire. Solo chi vive o ha vissuto un’esperienza simile alla tua. Dovrai essere solo ad affrontare la tua guerra, vincerai le battaglie con rabbia e determinazione, procedendo come un carro armato, facendoti spazio a forza, perfino con cattiveria se necessario. L’importante conservare la voglia di vivere, aggrapparsi al senso della vita, per non essere risucchiato dai vortici della disperazione.
I medici interpretano sicuramente un parte determinante, ma resteranno sempre dei freddi esploratori, degli osservatori fuori dalle finestre della malattia, vedranno le stanze, ma non completamente, non sentiranno gli odori ed i suoni degli interni. Si perderanno i dialoghi, anche se capiranno dalla gestualità. E basterà questo e la loro intelligenza per apportare un aiuto decisivo, ma non penetreranno mai nell’intimità dell’ammalato.
Bene, allora avanti con la terapia, affrontiamo qualunque disagio, ogni piccolo o grande effetto collaterale. Punture endovenose che distruggeranno le mie floride vene. La chemioterapia mi avrebbe reso sordo, mi avrebbe fatto cadere tutti i capelli, mi avrebbe lasciato senza peli? L’importante era restare vivo il più possibile, per aiutare le mie figlie ad essere indipendenti.
Dopo la prima chemioterapia debolezza e rumori nella testa e negli orecchi. I disturbi passarono nei giorni seguenti e l’abbondante cortisone mi aiutò a tirarmi su di morale e finanche ad abbronzarmi. Proprio il giorno prima della partenza per Roma. E il soggiorno nella capitale fu accompagnato da una certa stanchezza e da un fastidioso dolore delle parotidi che si riacutizzava insieme ad un bruciore della bocca ogni volta che bevevo un sorso d’acqua.
Facevo di tutto per non far trapelare all’esterno la mia malattia, anche se ciò risultava abbastanza difficoltoso. Mi interessava particolarmente non far giungere la notizia ai miei parenti più stretti, soprattutto alle mie figlie e ai quattro nonni.
Le mie figlie lo avrebbero saputo, ma al momento giusto: avrei spiegato che la malattia va accettata serenamente come qualunque componente della vita, come il benessere, il lavoro, l’amore, la ricchezza, la miseria. E come ogni problema dell’esistenza va studiato, capito e affrontato con determinazione, se si ha voglia di risolverlo e superarlo. Adesso mi sembrava più giusto lasciarle ai loro problemi adolescenziali, anziché impelagarle in situazioni incomprensibili e deleterie per la loro crescita.
I nonni, come genitori, avrebbero sofferto più di me della mia malattia. Inoltre l’assenza di tranquillità familiare si sarebbe letta nei loro occhi e non mi avrebbe certamente aiutato nella mia guerra.
Avrei raccontato tutto e festeggiato con loro in caso di guarigione. Oppure avrei dato il più tardi possibile la notizia di prognosi definitivamente infausta.
I sanitari mi parlavano e mi guardavano come un aspirante cadavere, alimentando in me un certo risentimento, una gran voglia di rivalsa. Con tutto il fiato volevo soffiare sul panno di polvere della loro atavica rassegnazione, della programmata sconfitta. Per sollevare un nuvolone bianco che facesse tossire ed espettorare loro anche i polmoni, che li accecasse per momenti interminabili e crudeli. Poi affacciasse i loro occhi su un’immensa distesa verde, illuminata dal sole appeso su alte vette innevate e da riverberi dorati che pungono l’infinito panno impregnato di un azzurro gelido e violento. L’intenso desiderio di mostrare loro il senso della vita, in tutti i suoi riflessi argentati che rimbalzano a iosa sullo sconfinato verde della mia macchia mediterranea.
Odiavo quella maledetta smorfia di rassegnazione che chissà quante volte avevo proposto inavvertitamente ai miei pazienti.
Quando sedevo alla poltrona del barbiere toglievo sempre gli occhiali per aiutare il suo lavoro, così l’ampia specchiera non rifletteva altro che confusione e nebbia attraverso cui si intravedevano delle informi figure umane che si muovevano tra oggetti sfumati e confusi tra i soliti profumi di lacche, lozioni e borotalco.
Avrei finalmente accontentato mia moglie, la quale, notando l’inoppugnabile calvizie, l’estate precedente mi aveva proposto di rasarmi i capelli a zero. Zelante paziente da chirurgo plastico, aspettavo che mi scollassero le bende per apprezzare la nuova fisionomia. Inforcando gli occhiali la maschera fumosa si dileguò lasciando posto ad un rotondo faccione in cui la calotta cranica sfumava senza interruzioni nelle nutrite mandibole, ostentando i due carnosi manici dei padiglioni auricolari. Mi guardavo compiaciuto nello specchio per abituarmi più in fretta alla novità. Avevo anticipato l’inesorabile futura caduta dei capelli, mascherandola da autonoma decisione ed evitando spiacevoli spiegazioni. Alla meraviglia dei conoscenti per l’inopportuna rasatura invernale e alla loro preoccupazione per le gelature del mio cervello contrapponevo l’antica avversione per ogni genere di copricapo e la mia proverbiale “testa calda”. Con il passare dei giorni anche gli altri, in famiglia, in paese, in ospedale, sembrava che si fossero abituati alla mia nuova immagine, anzi spesso qualcuno si complimentava con me perché apparivo più giovane o addirittura più bello. Apprezzamenti che non stuzzicavano la mia vanità, ma mi facilitavano i rapporti sociali e m’infondevano sicurezza. Così continuavo a condurre una vita normale, impegnandomi nel lavoro, nella lettura e nella scrittura, frequentavo le solite persone ed i soliti ambienti, non cambiavo le abitudini. Spesso mi sorprendevo nella sensazione che niente fosse successo. In questi momenti riuscivo anche ad apprezzare meglio la bellezza della natura e di tutto ciò che mi circondava.
Al compimento dei quaranta anni espressi la sensazione di una vita piena e soddisfacente. Mi ripetevo che per portare a termine tutti progetti da me realizzati e tutta la mia crescita ad altri non sarebbero bastate tre vite. Da una famiglia modesta culturalmente ed economicamente avevo assorbito valori semplici ma ricchi, che avevano fortificato il mio carattere. Senza particolari aiuti avevo superato le difficoltà delle varie epoche della mia crescita, gli ostacoli dello studio, ero riuscito a conseguire laurea, specializzazione, inserito nel mondo del lavoro senza emigrare. Soddisfacente affermazione nella propria terra, vicino alla famiglia ed alle proprie origini. Talmente appagato che potevo anche concludere la mia esperienza esistenziale. Cioè morire. Tutto appariva così semplice. Finché gli eventi reali si dipanano lentamente al cospetto della presunta solidità delle eterne convinzioni. Esplodono le bolle della boriosa inesperienza, sdrucito sipario di amare ammissioni.
Adesso che la mia salute è minata da una grave malattia che potrebbe consumarmi lentamente o, nel caso in cui non reagisca positivamente alla terapia, distruggermi nel giro di pochi mesi, adesso sento che innumerevoli impegni e intendimenti non appagati mi trattengono dall’allontanarmi dalla responsabilità di esistere.
Intanto l’uomo pelato appariva allo specchio in scansioni progressivamente più sottili. Epifania di un appetito flebile che non si opponeva al suo completo cedimento. Diversi chili nel giro di pochi giorni. Dimagrimento per mancanza del bisogno di alimentarsi: esperienza nuova ed inattesa.
La vita non si faceva distrarre dalla lotta per la malattia.
E mi veniva il dubbio che la perdita fosse dovuta alla mutilazione chirurgica. Ma possibile che la provola pesasse la bellezza di cinque chili?
Sostanze chimiche introdotte nei miei mille vicoli nascosti e trasportate da globuli-cicerone ammiravano la rete di meraviglie microscopiche, tracce corrosive memoria del loro passaggio appestavano gli scorci più suggestivi. In attesa di soddisfare il compito di ripulirmi dal fetido male, sbocconcellavano il meglio di me. Sradicavano ciuffi di capelli, indebolivano baffi e ciglia
Dopo qualche settimana i capelli rasati esibivano medaglioni di alopecia che si confondevano con il biancore del cuoio capelluto, le sopracciglia si sfoltivano piano piano ma alterando la fisionomia del viso. Non si capiva bene cosa era successo ai miei lineamenti, ma si intuiva che qualcosa era cambiato.
Lente lente le suole slittavano sull’asfalto nero e umidiccio. Nel filtro acquoso e dirotto coltellate di luce sbullettavano la monotonia del selciato. Sfere brillanti s’infrangevano instancabili e saltellanti sulla testa tosata. Stordito dal ciangottìo della pioggia, fumo gelido di bocca e narici a dipingere diamantine aureole invernali, procedevo incurante per vicoli e piazze.
La mano affondava nelle nuvole scure e dense, roteavo il braccio velocemente per disperdere quell’aria fumosa e umida. Per lasciare una traccia solida come se spostasse una sostanza cremosa, una panna grigia, per poi ricomporsi fitta e vaporosa.
Per le stradine del centro storico, allegra compagnia di passi striscianti, echi clangenti salutavano il passaggio di un malinconico ritornello, note disperse rotolavano sgattaiolanti nelle grate degli scantinati. E spettri di finestre e portoni sbuzzavano i muri fradici e maculati di antiche fantasie. Ombre di passanti snocciolavano secchi saluti privi di risposta nell’umida noia di un’insostenibile distrazione.
Solo tra gli angoli del paese sotto la pioggia assidua che annunciava i primi freddi. L’antico bastione medievale riscaldato dal barbaglio dorato di un riflettore osservava paternamente i moti del mio animo.
Alzai lo sguardo verso le mura merlate: la mente slottata di fronte all’epilogo del suo cammino? Oppure la vittoria alata e sorridente mi svolazzava intorno a ricordarmi che la malattia sarebbe stata distrutta con il coraggio? E la domanda assillante: come ne sarei uscito da questa esperienza, se si fosse conclusa positivamente? Più attento, più affettuoso, meno impulsivo, meno iracondo ed arrogante, più rispettoso della condizione altrui, più credente. Sicuramente più stanco, non so se avrei trovato la forza di riprendere le mie numerose attività con la stessa voglia di prima. Mi sentivo più vecchio, un pensionato.
Circondato dei teneri ed eccessivamente soavi sorrisi di colleghi e collaboratori.
Non mi arrecavano fastidio, non irrompevano nella mia intimità, non riducevano lo spazio di azione e il campo di guerra.
Rappresentavano lo specchio di un dubbio, di un “si dice”, senza nessuna certezza.
Al ritorno da Roma cominciavo a smaltire gli effetti collaterali della terapia. Un fastidioso formicolio alle mani, regalo della vincristina, non mi permetteva la destrezza di prima, tuttavia mi era ritornata la forza e la voglia di impegnarmi. La nausea scemava e si rinforzava l’adattamento alla mia nuova immagine fisica.
I pazienti mi cercavano con insistenza e non potevo più sottrarmi ai miei compiti. Era ora di riorganizzarsi e riprendere a lavorare a pieno carico.
Le ore di lavoro con i miei pazienti facevano entrare uno sprazzo di vita, un fascio di luce nella mente tetra, nello scantinato del mio cuore: i momenti in cui mi sentivo utile agli altri asciugavano in fretta l’umidità che impregnava i muri e il fango che ne impiastricciava i pavimenti.
Claudia non celava la rabbia nei confronti di coloro che venivano a lamentarsi con me dei loro disturbi. Pensava che le loro banalità erano offensive nei confronti della gravità del mio caso. Loro non potevano sapere, poveretti, e continuavano a cercare comprensione e richiedere aiuto al loro medico simbolo della salute. Tutto giusto. Regolare. Un piacere costituire l’approdo di tutte le ansie e di tutte le incertezze degli anziani, delle donne, dei genitori, quando essi hanno smarrito la capacita di orientarsi.
— Ma non capisci che questa è la mia vita, il mio lavoro, io ho bisogno del mio lavoro. Oggi più che mai devo aiutare gli altri. Sono i miei pazienti a darmi la forza ed io la devo riconvertire in energia ed aiuto per la loro sofferenza. Adesso mi sento più maturo e più preparato perché ho l’esperienza diretta della malattia, posso capire meglio i meccanismi della mente dentro alla malattia, e non di fronte.
— Io capisco i tuoi bisogni, mi fa piacere il tuo pensiero positivo, la tua voglia di guarire e di vivere. Io sono convintissima che ce la farai, che ce la faremo. Sono tranquilla per questo. Ma quando penso al nostro problema, non posso fare a meno di arrabbiarmi quando gli altri si lamentano con te per delle sciocchezze o addirittura per malattie inesistenti.
— Tu devi solo cercare di essere serena ed infondere forza a me ed alla nostra famiglia.
Rombi di automobili e voci di donne dilagarono nella stanza confuse nel fresco di una mattina invernale. La sagoma diafana e attraente aveva coperto in parte la luce che filtrava dall’esterno. Claudia si era alzata per spalancare la finestra, appoggiarsi al davanzale e respirare tutta l’aria che poteva. Sempre parsimoniosa di parole e gesti affettuosi, percepivo in quell’istante il suo bisogno di trasmettermi amore e mestizia, di stringermi forte al petto e piangermi addosso la rabbia impotente. La raggiunsi per cingerle la schiena e ritrovare la sua pelle fresca sul mio collo. Sorrise guardandomi e poi abbassò lo sguardo. Per ricercare insieme il significato di un’antica tenerezza. Nel silenzio.
NOTE BIOGRAFICHE DELL’AUTORE
Biagio Saracino, nato ad Avetrana nel 1956, si è laureato in Medicina e Chirurgia nel 1980 e in Lettere Moderne nel 2009. Attualmente è dirigente medico presso l'Ospedale di Taranto.
Ha scritto e rappresentato con le sue compagnie teatrali diverse commedie, ha conseguito premi in concorsi di narrativa e poesia.
Ha pubblicato
poesie:
- nel volume “L'anemone e la luna” (2001),
- “Briciole d’affetto” (2009);
racconti:
- “E le voci tentennavano...” (2002);
libri di storia locale:
- “Lo snodo ferroviario negato ad Avetrana” (2002),
- “Aristodemo Marasco” (2003),
- “Lu Sciatucu” (2006),
- “… E la chiamavano <Banca del sapone>” (2008);
romanzi:
- “All'ombra dei silenzi” (2000),
- “Il cembalo di Caira” (2004),
- “Negli occhi del nulla” (2009).