La stampa è solita raccontare i guasti della giustizia penale ma non rappresenta compiutamente lo sfascio della giustizia civile ed amministrativa. La proliferazione dei riti costituisce una delle magagne di una giustizia impazzita.
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Malgrado le promesse dei governi che si sono avvicendati negli ultimi anni, la giustizia italiana stenta ad uscire dallo stato comatoso in cui versa da tempo immemorabile. Stendiamo un velo pietoso sullo stato della giustizia penale e sulla recente querelle concernente l’intenzione del governo di promuovere la separazione delle carriere di magistratura giudicante ed inquirente.
Senza voler tediare il lettore, vorremmo tentare di rappresentare la crisi del sistema giudiziario segnalando alcune questioni che il cittadino non addetto ai lavori ignora completamente. Innanzitutto occorre fare riferimento alla cosiddetta “moltiplicazione dei riti”. In campo civile ed amministrativo si contano, oggi, ben 23 tipologie di processi (ordinario, lavoro, fallimentare, societario, ecc.). Solo questo basterebbe per bollare di schizofrenia un legislatore impazzito che, malgrado le tare storiche della giustizia italiana, seguita pervicacemente a partorire capolavori di vera follia legislativa. Per esempio, in materia di incidenti stradali esistono due riti differenti: il rito ordinario per il danno riguardante il veicolo ed il rito del lavoro per il danno riguardante la persona. In pratica, per lo stesso evento lesivo si assiste allo sdoppiamento dei processi e dei giudici. L’effetto prodotto da tale superfetazione dei riti risulta essere esattamente opposto a quello perseguito dal legislatore che, con questa improvvida strategia, vorrebbe ridurre la durata dei processi. Infatti, alle controversie promosse dal cittadino per la tutela dei propri diritti, vanno così ad aggiungersi le liti aventi ad oggetto le procedure da adottare. Questa situazione finisce per esasperare tutti gli operatori (cancellieri, ufficiali giudiziari, magistrati ed avvocati) benché nel cittadino sia diffusa la convinzione che gli avvocati possano lucrare laute parcelle dalla lentezza delle cause. Non è così. Gli unici beneficiari di questa deriva sono i reprobi (debitori, innanzitutto) che possono giocare sulle lungaggini delle liti per sottrarsi all’adempimento dei propri obblighi. Nei rapporti fra imprese, per esempio, risulta essere un gioco da ragazzi ordinare della merce per poi differirne sine die il pagamento: l’azienda creditrice richiede ed ottiene un decreto ingiuntivo ma l’azienda debitrice può fare opposizione instaurando una causa ordinaria. Risultato, possono passare anche cinque anni per ottenere una sentenza di condanna del debitore che nel frattempo si è reso insolvente o irreperibile. La nostra classe politica ha sempre sottovalutato il costo sociale di questo sfascio. Sono stati sottostimati i riflessi sul sistema dei rapporti fra imprese, fra imprese ed istituti di credito ma, soprattutto, sulla coscienza collettiva. Una cattiva giustizia (una giustizia ingiusta) finisce inevitabilmente per creare pericolosi strappi ad un tessuto sociale già abbondantemente sdrucito da altre questioni che, dilatate dalla stampa, possono apparire financo più gravi (la sicurezza e l’ordine pubblico, ad esempio). Tra i problemi della giustizia italiana vi è anche l’abnorme proliferazione delle cause ed il numero degli avvocati italiani, il più alto del mondo occidentale in rapporto alla popolazione. Anche la litigiosità del cittadino italiano finisce, pertanto, per aggravare le cose. C’è, infine, un altro dato da sottolineare. La sconsolante inefficienza della macchina giudiziaria produce la percezione che esista una giustizia di classe in grado di avvantaggiare i cittadini più potenti i quali possono disporre di bravi avvocati ma anche di prestigiose frequentazioni. Ma questo è un problema che investe tutte le democrazie ed è legato esclusivamente alla dirittura morale di ciascun magistrato. Come in ogni altro ambito.
Antonio Dostuni