Durante l’ultima cena, Gesù, proprio mentre sta esprimendo il «tutto nel frammento», è costretto a reagire con decisione ad una discussione sorta tra i suoi:
I re delle nazioni – spiega – le governano e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così! Ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve (Lc 22,25-26).
Da queste parole emerge una presa di distanza netta della logica evangelica rispetto ad altre logiche di questo mondo: nella «comunità alternativa» dei credenti in Cristo1 il governo dev’essere una forma di servizio degli altri. L’esortazione è fondata sull’imitazione di Cristo e sulla partecipazione allo stesso amore senza condizioni che nell’ultima cena lo stava spingendo ad accettare che, di lì a poco, il suo corpo venisse spezzato sulla croce per tutti gli uomini, proprio come il pane da lui appena spezzato.
Infatti – continua Gesù –, chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure, io sto in mezzo a voi come colui che serve (v. 27).
Nel Vangelo secondo Giovanni, Gesù sostiene in maniera ancora più esplicita:
Se dunque io, il Signore e il maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (13,14-15).
Contemplando questa scena evangelica, intendiamo individuare nella rivelazione biblica il fondamento agapico («caritativo») dell’impegno socio-politico dei cristiani. Senza pretese di completezza su un tema così ampio e spinoso, cercheremo soltanto di rispondere – Bibbia alla mano – a due interrogativi.
Il primo nasce dall’esclusione di Gesù: «Per voi però non sia così!» (Lc 22,26). Ci si può chiedere: in che senso l’attività socio-politica dei cristiani «non» dev’essere «così», cioè non dev’essere come quella dei potenti di questo mondo?
Ma per non cedere al disfattismo o alla retorica ecclesiastica, è giusto farsi soprattutto una seconda domanda: se l’attività dei cristiani non dev’essere «così», comedev’essere? Come devono comportarsi i cristiani in ambito socio-politico per diventare – secondo l’invito di Gesù – «sale» e «luce del mondo»2?
Iniziamo a rispondere accennando a due diverse esperienze ecclesiali del cristianesimo primitivo: quella delle comunità cristiane dell’Asia Minore descritta dall’Apocalisse e quella della Chiesa gerosolimitana tratteggiata dagli Atti degli Apostoli. Grazie a questi rapidi cenni, ci si potrà rendere subito conto che a seconda del contesto socio-politico in cui si trova una comunità cristiana, si può – anzi, si deve – vivere la memoria di Cristo in maniera diversa, creativa, originale.
In un secondo momento, metteremo in luce come anche noi cristiani del terzo millennio possiamo e dobbiamo continuare ad essere memoria creativa e originale di Cristo nelle variegate situazioni socio-politiche in cui viviamo.
1. «Le sacre Scritture possono istruirti per la salvezza»:
suggerimenti di metodo per interpretare la Bibbia
Queste considerazioni iniziali già ci offrono il criterio decisivo per un uso corretto della sacra Scrittura in discorsi di questo tipo. In effetti, specialmente in riflessioni come queste, quanto più si è «gente di Chiesa», tanto più forte si può sentire la tentazione di ricorrere alla Bibbia in maniera fondamentalista, come fanno ad esempio i «testimoni di Geova». Invece, soprattutto su temi del genere, occorre leggere il testo biblico in maniera corretta, per non cadere in gravi equivoci, se non addirittura in veri e propri errori, sia dottrinali che pratici.
Per evitarli, non si devono cercare nella Bibbia «ricette» bell’e pronte, né tanto meno la rivelazione divina del sistema politico che i cristiani sarebbero chiamati a realizzare sulla faccia della terra. «Il mio regno non è di questo mondo!» (Gv 18,36): ha tentato invano di far capire Gesù a Pilato. Anche sotto questo profilo, la sacra Scrittura attesta la parola di Dio incarnatasi in parole umane. Di conseguenza, è necessario un fine lavoro interpretativo, nell’ampio alveo della tradizione vivente della Chiesa e con l’aiuto costante dello Spirito santo, per distinguere quanto nella Bibbia è parola di Dio e quanto, invece, è semplice parola umana.
Ad esempio, sarebbe ingenuo immaginare che la sacra Scrittura esigesse dai cristiani di tornare ad una monarchia simile a quella che, un millennio prima di Cristo, ha instaurato Davide in Israele, oppure al sistema socio-politico tribale dei tempi di Abramo, circa 1850 anni a.C.
La rivelazione biblica non propone un modello socio-politico valido per tutta la terra e per ogni epoca della storia: il «regno di Dio» non è questo! La Bibbia non contiene neppure «pacchetti» di soluzioni socio-politiche valide a seconda delle varie epoche o dei multiformi contesti geografici. Infine, non è corretto cercare nella sacra Scrittura «prontuari» o «istruzioni per l’uso» dettate da Dio, che basterebbe seguire alla lettera per ottenere infallibilmente un buon risultato.
La rivelazione biblica delinea invece una concezione complessiva di uomo, fondata sulla vicenda storica concreta di Gesù di Nazareth, compimento completo e definitivo della rivelazione anticotestamentaria di Dio e di ogni altra «scintilla» di verità brillata nella storia umana. In quanto vero uomo e vero Dio, Cristo ha rivelato i tratti di un’esistenza umana autenticamente vissuta in conformità alla volontà salvifica di Dio. Alla luce di questa rivelazione divina sull’uomo, i cristiani di ogni epoca hanno il compito delicatissimo del discernimento spirituale, vale a dire d’individuare nella loro determinata situazione sociale, politica, economica e culturale i modi concreti per vivere «come» Gesù e «con» lui. Questo discernimento, svolto nella docilità allo Spirito santo che ha ispirato la Bibbia3 e che continua a guidare la Chiesa, non può che riguardare tutti gli spazi dell’esistenza umana, compresi gli ambiti socio-politici.
Infine, la sacra Scrittura non traccia l’identikit del «politico cristiano», ma fa memoria del volto di Cristo e schizza il ritratto dell’uomo «in Cristo»4 e «conforme a» lui5. Perciò, anche il politico cristiano è chiamato a vivere in maniera coerente con questo ritratto di uomo «in Cristo», facendo quotidianamente discernimento a riguardo delle proprie attività, alla luce della parola di Dio, interpretata nella Chiesa e sotto la guida dello Spirito del Signore risorto.
2. «Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto
per nostra istruzione»: memoria creativa della Chiesa primitiva
Per mostrare che dalla memoria della singolare vicenda storica di Gesù di Nazareth possono derivare concezioni anche non coincidenti del rapporto dei cristiani con la società, è sufficiente accennare ad alcune esperienze ecclesiali attestate nel Nuovo Testamento.
2.1. «Condannando Babilonia, Dio vi ha reso giustizia!»:
l’opposizione ad ogni sistema politico non evangelico
L’Apocalisse è stata scritta per le comunità cristiane dell’Asia Minore – l’attuale Turchia –, che negli anni Novanta d.C. stavano subendo una terribile persecuzione scatenata dall’imperatore Domiziano (51-96 d.C.)6, ancora più cruenta e sistematica di quella del 64 d.C. voluta da Nerone (37-68 d.C.).
Furono numerosissimi in quegli anni i cristiani che diedero la vita per testimoniare la fede7. Altri finirono in carcere (cf Ap 2,10). Lo stesso autore dell’Apocalisse, Giovanni (1,1.4), fu mandato in esilio nell’isola di Patmos, «a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù» (1,9).
Certe comunità cristiane erano cadute in una grave crisi di fede e stavano ormai per dissolversi (cf 3,1), chiedendosi probabilmente: «Sarà proprio vero che Cristo è il Signore della storia? Non è che, al di là di tante illusioni, a guidare la storia sia in realtà l’imperatore di Roma con il suo invincibile esercito?».
A provocare questa crisi di fede non erano soltanto le persecuzioni, ma anche le ripercussioni che aveva all’interno di queste comunità lo scontro continuo con il loro contesto sociale, sostanzialmente chiuso al vero Dio.
Giovanni non poteva non dare un giudizio di disapprovazione sull’impero romano, che aveva scatenato quella crudele persecuzione contro i cristiani. Eppure, ha preferito non parlarne esplicitamente. Per alludere a Roma, ha fatto ricorso all’immagine di una prostituta, seduta su una bestia di color rosso scarlatto – sanguinaria, quindi –, con sette teste (17,3). Poi ha precisato: «Qui ci vuole una mente che abbia saggezza. Le sette teste sono i sette colli sui quali è seduta la donna; e sono anche sette re» (v. 9). Giovanni si è guardato bene dal nominare Roma. Nessuno poteva accusarlo di fomentare la rivolta contro l’impero. Ma a buon intenditor, poche parole!
Tuttavia, Giovanni non si è espresso così soltanto per prudenza. Egli ha voluto soprattutto offrire ai suoi lettori una specie di «manuale di discernimento dei segni di Dio». A questo scopo, ha utilizzato «categorie-segno» – come la prostituta, la città di Babilonia, la bestia e il drago – per insegnare ai cristiani di quei tempi – e anche dei tempi a venire – a riconoscere i segni divini nei fatti della storia.
Cambiasse pure il regime, io [Giovanni] voglio fornirvi una griglia di lettura per interpretare quanto vi sta capitando alla luce della fede cristiana. Certo, i fatti della storia non si ripeteranno tali e quali. Ma in questo libro la vostra comunità troverà una specie di «manuale del discernimento cristiano», da cui imparare a scoprire nei fatti della vita i segni di Dio.
In particolare, attraverso questo «manuale», i cristiani hanno la possibilità di distinguere nelle varie epoche della storia tra due sistemi di vita antitetici. Il primo sistema è chiamato «Babilonia»; il secondo, «Gerusalemme». Chiaro: è uno schema! Ogni sistema socio-politico non è mai soltanto positivo o negativo. D’altronde, tra Gerusalemme e Babilonia non ci sono mura o confini. Sino alla fine dei tempi, le due città vivranno insieme, come il grano e la zizzania della parabola di Gesù (cf Mt 13,24-30). Giovanni lo sa. Perciò, cerca di aiutare i cristiani a distinguere ciò che nella società dell’epoca e, prima ancora, ciò che nel proprio cuore appartiene a Gerusalemme e ciò che invece spetta a Babilonia; per evitare – come già raccomandava Gesù – l’illusione di poter servire due padroni8.
Il sistema di vita denominato «Babilonia» è chiuso a Dio ed è impermeabile ai valori spirituali. Al suo interno ci si accontenta dei beni materiali. È proprio in questo sistema di vita che, per l’Apocalisse, lo stato prende le sembianze di una «bestia» mostruosa. Non si tratta però dello stato in quanto tale; bensì di un tipo di stato totalitario, che obbliga i suoi cittadini ad adorarlo e che si arroga il diritto di essere l’assoluto della loro vita, prendendo così il posto che in realtà spetta soltanto a Dio. In questo modo permette al demonio di scendere sulla faccia della terra (cf 12,9), trasformandosi in uno strumento malefico nelle sue mani.
Dipingendo questo tipo di stato come una «bestia», l’Apocalisse ricorre ad un simbolo teriomorfo. Gli animali, infatti, sfuggono alla razionalità umana e spesso hanno una forza bruta superiore a quella degli uomini. Questo tipo di stato è definito in termini bestiali perché in qualche modo utilizza forze negative incontrollabili e irrazionali.
Si pensi, ad esempio, all’irrazionalità dell’«olocausto» del popolo ebraico, compiuto dal regime nazista durante la seconda guerra mondiale. A pensarci oggi, rimaniamo allibiti! Com’è stata possibile tanta crudeltà così sistematicamente organizzata? Senza dubbio, possiamo rintracciare molteplici motivazioni storiche per tentare di spiegare quanto avvenne. Tuttavia, è innegabile che, in quel frangente, sia scattato un processo irrazionale, umanamente ingovernabile, demoniaco, disumano, anche se messo in atto dagli uomini. In questo senso, lo stato, per l’Apocalisse, può trasformarsi in una «bestia» che consente al demonio di agire mediante gli stessi uomini.
Eppure, per l’Apocalisse, gli animali, pur sovrastando gli uomini, rimangono soggetti a Dio. È il secondo aspetto del simbolismo animale utilizzato in questo libro, che permette di comprendere perché lo stato vi sia rappresentato come una «bestia». Non c’è dubbio – spiega Giovanni – che, soprattutto in alcuni periodi oscuri della storia, mediante lo stato si scatenino forze irrazionali e distruttive. Tuttavia, queste forze negative non sono in grado di arrestare il processo storico che conduce alla salvezza degli uomini, perché, in maniera misteriosa ma reale, Dio, mediante lo Spirito di Cristo risorto, seguita ad attrarli a sé e non permetterà mai alle potenze del male di avere il sopravvento definitivo su di loro.
Si capisce, allora, il significato della visione profetica di Giovanni:
Vidi salire dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste, sulle corna dieci diademi e su ciascuna testa un titolo blasfemo. [...] Il drago [cioè Satana] le diede la sua forza, il suo trono e la sua potestà grande. [...] Alla bestia fu data una bocca per proferire parole d’orgoglio e bestemmie, con il potere di agire per quarantadue mesi (13,1-2.5).
È significativo questo particolare apparentemente cronologico: quarantadue mesi sono tre anni e mezzo. Tre e mezzo è la metà di sette. Nella Bibbia il numero sette indica simbolicamente realtà perfette, complete, eterne. Per questo motivo, Giovanni sostiene che lo stato totalitario che si mette al posto di Dio può durare soltanto tre anni e mezzo, ovvero un lasso di tempo parziale, provvisorio, destinato prima o poi a finire. Certo, la bestia adesso spadroneggia su tutta la terra. Ma il suo dominio non permarrà in eterno. È destinato a sgretolarsi. Difatti, così avvenne per l’impero romano!
In questo modo il libro dell’Apocalisse svolge la funzione di parola profetica9, con cui lo Spirito santo ha aiutato i cristiani perseguitati di quell’epoca, ma anche i cristiani di tutti i tempi, a non fare dello stato un idolo. Sotto questo profilo, ha ragione il filosofo francese Jean-Luc Marion (1946-) quando sostiene che «la politica crea sempre degli idoli» e che «è soprattutto alla politica che il nostro tempo deve il fatto di non mancare di nuovi idoli»10. L’attualità della parola profetica dell’Apocalisse sta proprio nel mettere allo scoperto che esistono ancora oggi forme d’idolatria molto subdole e, in quanto tali, molto più pericolose della persecuzione violenta scatenata direttamente dallo stato contro chi non vuole avere altri dei all’infuori di Dio (Es 20,3-4; Dt 5,7-8).
In quest’ottica, si potrebbe meditare specialmente sulla denuncia che l’Apocalisse fa, al capitolo diciottesimo, della fine di coloro che hanno idolatrato il potere, ma anche le attività commerciali e le ricchezze. Ma va ribadito che l’Apocalisse non demonizza né la politica né l’economia in quanto tali. Quando però esse detronizzano Dio per imporsi come il valore assoluto della vita degli uomini, l’autore di questo libro non teme di bollarli come strumenti di Satana!
In particolare – avverte, senza peli sulla lingua, Giovanni –, quando l’economia non è più al servizio delle persone e del bene comune, ma è finalizzata unicamente ad arricchire alcuni con il commercio di «frumento, bestiame, greggi e cavalli» e sfruttando persino «vite umane» (Ap 18,13), allora è iniqua! Contribuisce a costruire un sistema di convivenza disumano, chiuso a Dio e dunque destinato all’autodistruzione (vv. 14-17).
Se poi qualche comunità cristiana – come quella sviluppatasi nella città di Laodicea – cede alla tentazione del lusso egoistico e sfrenato e del conseguente lassismo morale, l’autore dell’Apocalisse, parlando a nome di Cristo stesso (3,14), la richiama con una durezza inaudita:
Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca! Tu dici: «Sono ricco! Mi sono arricchito! Non ho bisogno di nulla!». Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo! (3,15-17).
Questo rischio di una sostanziale connivenza con logiche economiche ben lontane dal vangelo è quanto mai attuale per la Chiesa odierna, soprattutto nell’emisfero nord della terra. Perciò, ha bisogno di sentire diretti a sé i rimproveri profetici dell’Apocalisse, che, mettendola in crisi, la spingano a fare discernimento spirituale su certi comportamenti non coerenti con il vangelo di Cristo.
La Chiesa odierna ha bisogno di dare ascolto a parole «ruvide» come quelle di sant’Ilario di Poitiers (315-376 circa), scritte quando il cristianesimo, a causa dell’editto di Milano dell’imperatore Costantino (313), era passato da un regime di minoranza, di persecuzione e di martirio ad una situazione di riconoscimento statale. Il vescovo Ilario, lungi dal rallegrarsi di questo passaggio, ne ha denunciato le pericolose conseguenze ecclesiali.
Si potrebbe dire che in questi ultimi anni, in Italia, è avvenuto un passaggio inverso: da una Chiesa di maggioranza – se non addirittura da una «Chiesa di governo»11 – siamo giunti ad una Chiesa di minoranza. Questa condizione può essere letta in termini traumatici o come una chance di maggiore libertà evangelica. In ogni caso, rimane alto anche per noi il rischio di attaccare il cuore ai beni materiali, a tal punto da dimenticarci sia di Dio che degli altri. Le parole del vescovo di Poitiers ci mettono in guardia da questa tentazione:
Ora noi [cristiani] combattiamo contro un persecutore ingannevole, un nemico che lusinga [...]: egli non percuote il dorso ma accarezza il ventre, non ci confisca i beni per la vita ma ci arricchisce per la morte, non ci sospinge col carcere verso la libertà ma ci riempie di incarichi nella sua reggia per la servitù, non spossa i nostri fianchi ma si impadronisce del cuore, non taglia la testa con la spada ma uccide l’anima con l’oro, non minaccia di bruciare pubblicamente, ma accende la geenna privatamente12.
In positivo, i cristiani sono invitati dall’Apocalisse a preparare la venuta nella storia della «Gerusalemme celeste», impegnandosi (cf 19,8) in ogni settore della «città», ossia della convivenza umana: in ambito sociale, politico, culturale ed economico.
Non possiamo soffermarci ad analizzare in quest’ottica l’ampio scritto neotestamentario. Ma conviene almeno notare come l’elaborazione di un modello dualistico del rapporto della Chiesa con la società sia stata causata dal contesto di persecuzione esterna e di crisi interna delle comunità cristiane dell’Asia Minore. Questo contesto spiega perché la visione dello stato nell’Apocalisse sia tanto negativa e costantemente giocata sulla contrapposizione tra la sposa di Cristo, la Gerusalemme celeste, ossia la comunità cristiana, e la «grande prostituta», Babilonia, cioè la società dei «senza-Dio».
Questo modello, del resto, viene sviluppato, sia pure con accentuazioni differenti, anche in altri scritti del Nuovo Testamento e, in specie, in quelli della cosiddetta «scuola giovannea». Si può pensare, ad esempio, alla contrapposizione tra la luce e le tenebre reperibile nel Vangelo secondo Giovanni13 e nelle tre Lettere di Giovanni14; o all’articolazione narrativa del quarto Vangelo, strutturato come un grande dibattimento giudiziario, in cui i testimoni sono di volta in volta chiamati in causa per schierarsi a favore o contro Cristo15; oppure ancora si può ricordare il tema dell’anticristo nelle Lettere di Giovanni16.
2.2. «Godevano la simpatia di tutto il popolo»:
la costruzione di rapporti socio-politici secondo il vangelo
Testimoniando per iscritto i medesimi valori del vangelo di Cristo, altri autori del Nuovo Testamento presentano il rapporto dei cristiani con la società secondo un modello più conciliante e non segnato dalla contrapposizione dualistica tra la Chiesa e il mondo. Si ricordi, ad esempio, il capitolo 13 della Lettera ai Romani, in cui Paolo raccomanda ai cristiani che vivevano nella capitale dell’impero:
Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi, chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. [...] Vuoi non aver da temere l’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. [...] Perciò, è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. [...] Rendete (apódote) a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse [...] (13,1-7).
In questa esortazione in cui si sente riecheggiare la raccomandazione di Gesù a «rendere (apódote) a Cesare quel che è di Cesare» (Mt 22,21), la prospettiva del rapporto della Chiesa con lo stato è molto positiva. Un’ottica simile è rintracciabile anche nelle due opere di Luca – il terzo vangelo e gli Atti degli Apostoli –, il quale del resto era discepolo e collaboratore di Paolo.
Più precisamente, gli Atti degli Apostoli, quando sintetizzano – non senza una certa idealizzazione – la vita della Chiesa di Gerusalemme, annotano che «ogni giorno tutti [i cristiani] frequentavano insieme il tempio [...], godendo la simpatia di tutto il popolo» (2,46-47).
Non solo: ma da questi cosiddetti «sommari» sulla Chiesa di Gerusalemme tratteggiati dagli Atti degli Apostoli (2,42-48; 4,32-37; 5,12-16) risulta come dallo «spezzare il pane» nella celebrazione eucaristica e dall’ascolto della parola di Dio predicata dagli apostoli siano sorte in questa Chiesa forme concrete di carità comunitaria, che giungevano alla condivisione dei beni.
Si vede bene come gli stessi valori evangelici abbiano portato le comunità cristiane del I secolo d.C. ad elaborare concezioni differenti del rapporto della Chiesa con la società e visioni diverse della Chiesa come «comunità alternativa» al mondo, a seconda dei contesti socio-politici in cui sono fiorite tali comunità. Spiega il cardinale Carlo Maria Martini:
Nel Nuovo Testamento ci sono offerti diversi modelli di comunità alternative: quello della chiesa di Gerusalemme, descritto in At 2-5, quello vigente nelle comunità di Antiochia o Filippi o Efeso o Corinto, che comprende sia rapporti interni fra i membri di ogni comunità locale, sia ricchi scambi tra comunità diverse con forme molteplici di comunione nella preghiera, nella fede, nella carità. I testi del Nuovo Testamento ci mostrano che tali comunità non erano esenti da problemi, divisioni, tensioni, scandali: ma tutto ciò era occasione di revisione e alla fine di crescita nella fede, nel perdono e nell’amore. Comunità alternativa non significa dunque comunità perfetta o senza difetti, ma comunità che si lascia formare e correggere dall’azione dello Spirito Santo per porre quelle premesse di comunione e di perdono che preludono alla Gerusalemme celeste17.
È proprio alla luce di questi dati variegati ma complementari del Nuovo Testamento che possiamo venire a parlare della Chiesa contemporanea, rispondendo ai due interrogativi iniziali.
3. «Voi siete la luce del mondo!»:
memoria creativa della Chiesa odierna
Focalizzando rapidamente alcune scene del Nuovo Testamento, si possono individuare tre livelli in cui l’agapê dei cristiani è chiamata a giocarsi nei confronti degli altri: il livello personale, il livello delle relazioni immediate con gli altri e il livello dei rapporti con gli altri mediati dalle istituzioni18.
3.1. «Ama il prossimo tuo come te stesso»:
la relazione di base con gli altri che sono «in» me
Il primo livello del rapporto con gli altri è quello spesso più dimenticato, forse proprio perché è il rapporto più intimo e costitutivo di ogni persona. Si tratta del rapporto con gli altri che sono «in» ciascuno di noi.
In effetti, la libertà umana è in quanto tale relazionale e storica. Non può evitare cioè di giocarsi di continuo in una società, in un preciso contesto socio-culturale. Questo dato è evidente; ma non è da intendere semplicisticamente a livello biologico, nel senso che ogni essere umano nasce dalla relazione dei propri genitori.
In realtà, per vivere in modo autentico da essere umano, ogni persona ha bisogno di un senso, di una meta da raggiungere – sia pure attraverso tappe preliminari –, di un fine da perseguire. Ma la presa di posizione dell’uomo nei confronti di un senso per cui vale la pena spendere la vita non è mai meramente individuale. La ricerca, il riconoscimento e l’accoglienza del senso della vita si attuano all’interno di una trama d’innumerevoli relazioni con altri esseri umani e in un dialogo permanente con loro.
Più radicalmente ancora: gli altri sono un dato originario e permanentemente costitutivo della propria autocoscienza e della propria conoscenza del reale, le quali non sono statiche, ma sempre in dinamica maturazione. Dunque, gli altri non sono fuori di me; gli altri sono «in» me, e lo sono sempre stati, fin dal mio concepimento.
Spesso, quando ragioniamo sulla società, non consideriamo in modo adeguato questo dato innegabile. Perciò, finiamo per dare per scontato che le relazioni con la società siano quelle più esterne a noi: prima, ci sono io; poi, vengono i miei familiari e parenti; poi, ad un cerchio più ampio, i miei amici e conoscenti; e infine, viene la società o l’intera umanità.
A dire il vero, questa visione delle relazioni con l’alterità è semplicistica. La società penetra in me fin dal mio primo istante di vita. Anzitutto, perché altri mi hanno generato. Ma poi, perché altri – e non solo i miei genitori – hanno contribuito, in maniera certamente differente, alla mia crescita fisica, affettiva, intellettuale ed etica.
Non è un caso, allora, che la parte più personale di me sia detta «coscienza» – dal latino cum-scientia, cioè «sapere con» –, perché, fatta salva la singolare capacità di rielaborazione personale, la maggior parte del nostro patrimonio di conoscenze e delle verità che hanno plasmato la nostra coscienza l’abbiamo assimilata dagli altri. Senza relazioni con gli altri, non esiste l’«io». Perciò, paradossalmente, non si può amare veramente se stessi, se non si ama gli altri.
Di questo legame inscindibile dell’individuo con la società si è reso conto, non senza amaro pessimismo, anche il filosofo esistenzialista ateo Jean-Paul Sartre (1905-1980). Nel suo dramma «A porte chiuse» (1945), i tre protagonisti – un uomo e due donne –, una volta morti, sono condannati all’inferno. Ma, per molti versi, la loro esistenza infernale viene a coincidere con quella terrena. In una stanza spoglia, dalla «porta chiusa» – come dice appunto il titolo –, senza finestre, ossia senz’alcuna via d’uscita, è messa in scena l’esistenza umana in quanto tale: l’inferno è trasferito sulla terra. Più esattamente: l’inferno è tale proprio perché rende eterna la condizione terrena.
Senza dubbio, pure per Sartre, la condizione terrena consiste nell’aspirazione all’amore vero. Tuttavia, questa aspirazione finisce per rivelarsi come una «passione inutile»! Sulla faccia della terra non si può giungere all’amore vero se non mediante gli altri. Eppure, per il drammaturgo francese, sono proprio gli altri che ostacolano i «cammini di libertà» della persona, come nel caso dei tre protagonisti del dramma: ciascuno dei tre è prigioniero per l’eternità dello sguardo dell’altro, che lo giudica senza posa e che gli impedisce di progettare se stesso come una persona libera. Così, il protagonista, riferendosi agli sguardi delle due donne, giunge a concludere:
Tutti questi sguardi che mi divorano... [...] Oh siete soltanto due? Vi credevo molti di più. [...] È questo dunque l’inferno? Non lo avrei mai creduto. Vi ricordate? Lo zolfo, il rogo, la graticola... buffonate! Nessun bisogno di graticole; l’Inferno, sono gli Altri19.
In un orizzonte «chiuso» alla trascendenza divina, le relazioni con gli altri e con la società, che pure sono insopprimibili per ogni persona in quanto «essere-per-altri», non sono intese come condizione di possibilità positiva per giungere alla verità, alla libertà, all’amore, al senso della vita. I rapporti con gli altri si trasformano in un vero e proprio «inferno»!
Prendendo le distanze da questa concezione pessimistica della qualità insuperabilmente relazionale dell’esistenza umana, si deve invece riconoscere questo semplice dato di fatto: «Nessun uomo è un’isola»20! Ciascuno di noi è essenzialmente un «essere-con-gli-altri»; anzi, prima ancora, un «essere-dagli-altri».
Ma se è così, è chiaro che per vivere in maniera autenticamente umana, occorre vivere di riconoscenza. Per il fatto stesso che siamo al mondo, siamo sempre «in debito» nei confronti degli altri: degli altri che sono i nostri genitori, degli altri che costituiscono il nostro mondo e, più radicalmente, dell’Altro che è Dio.
Si comprende, allora, un aspetto ulteriore del comandamento biblico «ama il prossimo tuo come te stesso»21, che Gesù ha vissuto «fino alla fine» (Gv 13,1), cioè fino a dare la vita per gli altri che amava. L’aspetto ulteriore è questo: se ogni persona è «essere-dagli-altri», cioè se l’altro costituisce in molti modi il mio «io», l’invito ad amare l’altrocome me non mi viene imposto dall’esterno, ma sgorga dal mio intimo, ossia dal riconoscimento riconoscente che io sono radicalmente debitore agli altri.
Se si dimentica questo aspetto fondamentale, la realtà della società rimane sempre qualcosa di estrinseco alla persona, mentre in realtà senza relazioni con la società, non esiste neppure la persona in quanto tale.
3.2. «Fate questo in memoria di me»:
la relazione fondante con Cristo
Qual è dunque il modo specificamente cristiano per costruire con gli altri uomini di buona volontà uno stile autenticamente umano di convivenza nel «villaggio globale» del mondo? In che modo i cristiani possono essere ancora oggi «sale» e «luce del mondo» nell’impasto nazionale e internazionale contemporaneo, così spesso insipido e pieno di ombre?
Il nostro modo specifico è continuare a fare memoria credente di Cristo. Essere «cristiani» vuol dire questo, e non altro! Ma questa memoria non si fa da soli, bensì vivendo nella Chiesa, intesa non come uno spazio attiguo al «mondo», chiuso o aprioristicamente contrapposto ad esso; ma come una trama di relazioni di fraternità, completamente finalizzate a rendere partecipe la società del vangelo di Cristo e della vita che da lui promana. La Chiesa non va concepita come «una specie di potere occulto, che pesa nelle coscienze e grava sulla società»22, ma come una trama di rapporti all’insegna della carità, in cui, giorno dopo giorno, insieme ad altri credenti in Cristo, si attinge luce dalla parola di Dio e forza dai sacramenti e soprattutto dall’Eucaristia. All’interno di questa trama di relazioni «agapiche» (cf 1 Cor 13), lo Spirito è di certo all’opera e continua a conformare a Cristo le coscienze dei credenti.
Nella Chiesa i cristiani prendono coscienza che l’impegno solidale nel mondo ha per fondamento l’agape incondizionato di Dio offerto mediante Cristo ad ogni uomo. Nella rivelazione di Gesù scoprono che da sempre Dio ama tutti come un padre buono, in maniera gratuita, preveniente, senza mettere condizioni preliminari. Rendendosi conto insieme di questo amore, i credenti cercano di prendervi parte, nella speranza che anche grazie al proprio contributo venga in modo pieno il regno di Dio, di cui la vicenda di Gesù è stata una realizzazione effettiva e definitiva, anche se ancora soltanto incipiente.
In parole povere: la proclamazione ecclesiale dell’invito di Gesù a fare «questo in memoria di» lui23 non porta i cristiani a fuggire dal «mondo» nella turris eburnea della Chiesa o del futuro regno dei cieli, e neppure giustifica un loro comodo «riflusso nel privato», dopo lo sgretolamento delle ideologie del passato. Al contrario, li spinge ad impegnarsi nel presente, lasciando che la «potenza dello Spirito santo»24 riempia il loro cuore con la stessa carità vissuta da Gesù e sperando di realizzare gradualmente una situazione – un «regno» – di giustizia, di pace, di solidarietà, fondato sul bene comune e sul rispetto di ogni persona, in cui tutti insomma vivano «come Gesù» e «con» lui. In effetti, la Chiesa
si è costituita come comunità di credenti – credenti in Gesù Cristo –, intorno agli apostoli. E poi è cresciuta nello spazio e nel tempo, assecondando il dinamismo della «missione» o «evangelizzazione»; quindi non nell’intento di chiudersi in se stessa per conservare un privilegio, ma nell’intenzione opposta di renderne partecipi gli uomini di tutto il mondo. Anche oggi, tutto ciò che la Chiesa è e fa – salvo ovviamente i propri limiti e le proprie contraddizioni – è finalizzato a questo scopo25.
3.3. «Va’ e anche tu fa’ lo stesso!»:
le relazioni immediate
Questo fondamento cristologico deve animare costantemente le multiformi dimensioni del doveroso impegno socio-politico dei cristiani, dalla dimensione comunitaria a quella istituzionale.
A questi livelli, il «fate questo in memoria di me» di Gesù non può essere inteso né in termini meramente liturgici – «Continuiamo a celebrare messe e liturgie, anche se il mondo non ci capisce!» – né in modo puramente ripetitivo e meccanico: «Dobbiamo vivere in maniera identica a Gesù, il quale non si è mai interessato direttamente di tutti questi problemi politici. Dunque, nemmeno noi dobbiamo sporcarci le mani con la politica!».
«Fare memoria» di Cristo oggi, o, meglio, «essere memorie» viventi di Cristo oggi richiede una dose notevole di creatività, originalità, carità intelligente, dato che sono trascorsi duemila anni dai tempi di Gesù.
È vero: Gesù non si è mai impegnato direttamente in politica. Ma la logica della solidarietà universale del Figlio di Dio da lui vissuta fino a farsi uomo come noi e a morire in croce a nostro favore (cf Fil 2,6-8) ci spinge a fecondare con il suo vangelo anche la politica.
Gesù è «la parola di Dio» che «si è fatta carne» (Gv 1,14) per salvare integralmente ogni essere umano26. Ora la «carne» dei credenti nel Signore Gesù si deve far parola edevangelizzare ogni settore dell’esistenza umana. Come abbiamo visto emblematicamente negli Atti degli Apostoli, questo significa che i cristiani sono chiamati ad inventare con creatività forme concrete di solidarietà, che non si limitino semplicemente alle relazioni «brevi» di prossimità.
Sicuramente il coinvolgimento affettivo dei cristiani in queste relazioni «brevi» è necessario per evitare di limitarsi a discorsi generici e astratti di chi camuffa così il proprio individualismo. È paradigmatico che Gesù abbia evitato di rispondere direttamente a domande astratte e inutili sulla definizione di «prossimo». La parabola del buon samaritano (Lc 10,25-37) mostra come nella relazione «breve» con un ferito incontrato per caso si può «farsi prossimi», semplicemente lasciandosi vincere dalla compassione nei confronti del bisognoso e soccorrendolo, anche a costo di rimetterci di tasca propria.
Lo stesso ha fatto Gesù: fattosi prossimo soprattutto nelle relazioni «brevi», ha mediato così la relazione più fondamentale e universale che ci sia, quella cioè tra Dio e l’intera umanità peccatrice27. Da questo punto di vista, è interessante notare che nel Vangelo secondo Luca ricorra lo stesso verbo greco – splanchízesthai – per designare sia la compassione del buon samaritano sia la compassione provata da Gesù quando incrocia il corteo funebre del figlio della vedova di Nain28.
È sempre il medesimo verbo che la versione greca dell’Antico Testamento secondo i Settanta usa per esprimere l’atteggiamento compassionevole di Dio nei confronti del suo popolo. È un’espressione verbale che allude all’affetto viscerale che una madre prova per suo figlio. Non meno di questo è chiamato a sentire ogni credente in Cristo ogni volta che s’imbatte in qualcuno che ha bisogno d’aiuto: «Siate misericordiosi, com’è misericordioso il Padre vostro!» (6,36).
Quanto impegnativa sia la parabola del buon samaritano lo ha ricordato l’allora arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini, che ha preso le mosse proprio da essa per stendere la Lettera per l’anno pastorale 1985-1986. È molto istruttivo il fatto che in quella Lettera, significativamente intitolata «Farsi prossimo», il cardinale abbia mantenuto strettamente unita la considerazione della carità che i cristiani sono esortati a vivere nei rapporti «brevi» con il discorso sul loro impegno ad un livello relazionale più vasto:
Nella società attuale, amare con paziente concretezza il fratello povero, bisognoso, oppresso significa non limitarsi a fare qualche intervento personale, ma anche cercare e risanare le condizioni economiche, sociali, politiche della povertà e dell’ingiustizia. In altre parole, per essere buoni samaritani nella società attuale, occorre fare qualcosa di più di quello che ha fatto, secondo la parabola evangelica, il buon samaritano nella società di allora, meno complessa e stratificata29.
3.4. «Rendete a Cesare quel che è di Cesare»:
le relazioni istituzionalmente mediate
La carità dei cristiani non può non giocarsi anche in relazioni più «lunghe» di quelle «a tu per tu», ossia anche in relazioni mediate dalle istituzioni. Il livello istituzionale è quello in cui agire all’insegna della carità spesso non dà molte gratificazioni, specialmente perché il rapporto con i beneficiari dei gesti di solidarietà non è diretto.
Eppure, il livello istituzionale è quello in cui la solidarietà può diffondersi maggiormente sia nello spazio sia nel tempo. Ad esempio, le ricerche dello scienziato americano Albert Sabin (1906-1993), che nel 1957 scoprì il vaccino contro la poliomielite, costituiscono un impegno umanitario indubbiamente diverso dalle cure sanitarie offerte in modo diretto ai poliomielitici dai dottori in un ospedale del Burkina Faso. Ma le ricerche di Sabin, portate a termine grazie alle istituzioni mediche degli Stati Uniti, consentono ancora oggi a milioni di persone, che in gran parte non sanno neppure chi sia questo ricercatore, di non contrarre questa malattia.
Significativo, dal punto di vista del livello istituzionale dell’impegno cristiano, è l’insegnamento di Gesù in Mt 22,21: «Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».
Prima di tutto, bisogna tradurre in modo corretto questo detto di Gesù, che nell’originale greco non dice: «date a Cesare», bensì: «rendete (apódote) a Cesare»30. Questa traduzione permette di comprendere il duplice insegnamento del detto31.
In primo luogo, da esso traspare il fondamento teologico dell’impegno cristiano nel mondo: i cristiani vivono di gratitudine primariamente nei confronti di Dio, che in Cristo li ha creati e salvati per puro amore. Essi sanno che, per mezzo di Cristo e del suo Spirito, hanno ricevuto in dono da Dio tutto quello che sono. Dunque, sentono l’esigenza di riconoscere con riconoscenza i doni divini, cercando appunto di «rendere a Dio quel che è di Dio». Si sentono in dovere di esprimergli la propria gratitudine, vivendo all’insegna dell’agapê verso di lui e verso tutti i suoi figli, in ogni settore della loro esistenza – privato e sociale, religioso e culturale, economico e politico –, perché tutto è stato creato da Dio Padre mediante il Figlio32 e perché il Figlio, facendosi uomo, ha assunto ogni aspetto dell’esistenza umana, eccezion fatta per il peccato (Eb 4,15).
Stando così le cose, non è corretto immaginare due ambiti di doverosità, ben separati e magari tra loro conflittuali: l’ambito «di Cesare» – di natura civile, giuridica o politica – e quello «di Dio» – di natura spirituale. L’ambito «di Cesare» rientra in quello «di Dio». Più esattamente: l’invito di Gesù a «restituire a Cesare quel che è di Cesare» mette in luce come nell’orizzonte del «debito» che ogni persona, venendo al mondo, contrae nei confronti di Dio, c’è anche un debito, altrettanto effettivo, verso la società, istituzioni sociali incluse. Il Figlio di Dio incarnato, vissuto, morto e risorto per gli uomini ha rivelato nella maniera più nitida possibile la carità gratuita e incondizionata di Dio nei loro confronti. Ha mostrato loro che «ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce» (Gc 1,17). Gesù, quindi, ha esortato chi crede in lui a vivere in maniera «eucaristica» e generosa nella consapevolezza di essere sempre in debito con Dio; ma, proprio per questo33, di essere permanentemente in debito anche con gli altri: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date!» (Mt 10,8; cf 1 Cor 4,7).
Ogni essere umano, dunque, è debitore anche alla società – e non solo alla società a lui contemporanea, ma anche alle civiltà del passato – di tante cose che egli ha, anzi, che egli è. In un certo senso, sentirsi in debito verso l’umanità e vivere per restituirle quanto si è ricevuto da essa rientra a far parte ultimamente della gratitudine verso Dio, che attraverso l’umanità ci ha fatto e continuerà a farci i suoi doni.
Per questa via è possibile anche e sempre scoprire, entro le esigenze di solidarietà pure imperfette avanzate dal contesto civile, un comando di Dio verso cui si è tutti costituiti debitori in modo ultimo; anche il rendere a Cesare è, in sostanza, modo autentico per obbedire a Dio34.
Inteso così, il debito verso l’umanità è altissimo e non ha senso volerlo estinguere una volta per sempre: debitori non solo si nasce, ma anche si diventa e si rimane!
D’altro canto, in quest’ordine d’idee si comprende adeguatamente la doverosità dell’impegno dei cristiani anche nei quadri istituzionali della società. Anche all’interno di questi quadri i cristiani sono invitati a «rendere a Cesare quel che è di Cesare», perché pure a questo livello percepiscono di essere debitori.
Ma le istituzioni sono, senza dubbio, la frontiera più ardua dell’impegno dei cristiani nel mondo. Nei settori istituzionali della società il dovere evangelico di essere «luce» si scontra più che altrove con le tenebre delle logiche di questo mondo e con le penombre dei compromessi e delle mezze-verità. Dunque, è in questi ambiti soprattutto che si richiede ai cristiani non solo competenza professionale, ma soprattutto una trasparenza, un’aspirazione al bene comune e alla giustizia, e una generosità tali da vincere le multiformi tentazioni dell’interesse egoistico.
3.5. «L’avete fatto a me»:
il senso ultimo delle relazioni «penultime»
Infine, tra i semi di parola di Dio sparsi da Gesù capaci di portare frutti di carità sia nei rapporti «brevi» e immediati con gli altri, sia nelle relazioni «lunghe» e istituzionalmente mediate, c’è la parabola del giudizio finale di Mt 25,31-46. Essa evidenzia come l’invito di Gesù a vivere «in memoria di» lui, se viene accolto in modo autentico, esiga azioni concrete di prossimità soprattutto nei confronti di affamati, stranieri, malati, carcerati e di tutti coloro che giacciono nelle nuove forme di povertà che la carità intelligente dei cristiani saprà scoprire ai nostri giorni.
In negativo, visto che il giudizio finale avrà come criterio esclusivo l’esercizio della carità, la parabola smaschera quanto sia inutile e incoerente l’atteggiamento di quei cristiani che si limitano a pregare «Signore, Signore!» (Mt 7,21-23), senza coniugare le preghiere e i discorsi su Dio con le opere concrete di giustizia e di solidarietà.
In positivo, a sostenere l’impegno – spesso tutt’altro che gratificante – dei cristiani nelle relazioni «immediate» e «mediate» è l’esperienza di essere essi per primi quotidianamente sfamati da Dio nel loro bisogno inesauribile d’amore. Perciò – come spiega il cardinale Martini –,
quando un cristiano, professando esplicitamente la fede e celebrando gli atti liturgici, si rende conto dell’immensa carità che Cristo ha per lui e per ogni uomo, non può rimanere indifferente. Vuole anch’egli spendersi totalmente per i fratelli. Questo desiderio ispirato dalla fede entra in risonanza con altri desideri spontanei o riflessi che noi proviamo dinanzi ai problemi dei nostri fratelli. I loro bisogni ci commuovono. Le loro povertà ci spingono a privarci di qualcosa per soccorrerli. I torti e le ingiustizie, che essi subiscono, suscitano in noi dispiacere, sdegno, condanna per chi compie l’ingiustizia, lotta contro la violenza, impegno per rinnovare profondamente la società. I motivi suggeriti dalla fede e i motivi provenienti dai nostri naturali sentimenti si rafforzano reciprocamente verso un’operosità sempre più realistica e costante. Così, almeno, dovrebbe accadere35.
Ma soprattutto i cristiani sono sorretti in questo loro impegno da quanto ha assicurato loro Gesù: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (v. 40). In effetti, il senso di certe azioni di carità può anche rimanere nascosto lungo la storia; tant’è vero che i giusti della parabola chiedono:
Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? (vv. 37-39).
In questo senso, la parabola contiene in sé un’implicita promessa di compimento: quando il Signore tornerà glorioso alla fine dei tempi, darà compimento perfetto e eccedente ad ogni gesto di solidarietà compiuto dagli uomini lungo la storia, anche se modesto, nascosto, imperfetto e non pienamente consapevole. Questa promessa ci dà speranza, perché neppure una «briciola» del nostro impegno per gli altri cadrà dalla mensa del banchetto del regno dei cieli. Ogni atto vero, buono e bello che saremo stati capaci di compiere nella nostra vita terrena non andrà perduto nell’estuario del nulla, ma manterrà un valore eterno agli occhi di Dio.
Certo: molto bene rimarrà nascosto lungo la storia, perché di solito fa più rumore un albero che cade che un’intera foresta che silenziosamente cresce. Soltanto alla fine dei tempi il Signore rivelerà il senso ultimo di ogni gesto di bontà. Manifesterà, quindi, anche il senso ultimo di quegli atti di solidarietà che, proprio perché sono stati compiuti in un ambito istituzionale, non hanno sprigionato il loro senso «teologico» a molte persone e, magari, neppure a coloro che li hanno portati a termine.
Il senso finale delle istituzioni è il servizio reso attraverso di esse a delle persone; se non c’è nessuno che ne trae profitto e crescita, esse sono vane. Ma questo senso finale, appunto, rimane nascosto; nessuno può valutare i benefici personali prodigati dalle istituzioni; la carità non è per forza lì dove si esibisce; essa è nascosta anche nell’umile servizio astratto delle poste, della sicurezza sociale; essa è molto spesso il senso nascosto del sociale. Mi sembra che il Giudizio escatologico vuol dire che noi «saremo giudicati» in base a ciò che abbiamo fatto a delle persone, anche senza saperlo, agendo tramite il canale delle istituzioni più astratte, e che infine è il punto di impatto del nostro amore nelle persone individualizzate che verrà giudicato36.
Perciò, la parabola di Gesù ci insegna il senso «teologico» di ogni azione autenticamente umana: in maniera più o meno evidente, ogni gesto di carità, realizzato sia a livello delle relazioni immediate, sia a livello delle relazioni istituzionalmente mediate, è scintilla di rivelazione dell’amore di Dio o, meglio, è scintilla di rivelazione dell’amore che Dio è; e ha nella rivelazione dell’amore incondizionato di Cristo crocifisso il suo senso ultimo.
Alla solidarietà singolare di Gesù che persevera nella fede fino alla fine senza temere ogni possibile smentita e sulla croce è perfezionata, nell’affidamento al Padre del compimento ultimo, deve essere riferita ogni solidarietà esistente; non anzitutto in quanto orizzonte ideale, astratto cui la prassi dovrebbe, nei limiti del possibile, conformarsi, ma come rivelazione piena del senso e quindi della bontà iscritta nel dedicarsi incondizionato, già entro le forme imperfette della solidarietà esistente, ad ogni altro, anche se sconosciuto, anche se tale fedeltà fosse tradita o misconosciuta, anche se arrivasse a richiedere sofferenza e morte. È in questa solidarietà, piena e non ambigua, che trova interpretazione ultima la solidarietà nelle sue forme storicamente vissute37.
Dunque, chi fa un gesto di solidarietà, ha per primo la possibilità di scoprire chi è il Dio-agapê, e d’iniziare a dimorare in Dio e così di salvare la propria vita: «Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1 Gv 4,16). In questo senso – come ci fa cantare la liturgia –, «ubi caritas et amor Deus ibi est»38! Se questa rivelazione non è immediatamente visibile nella storia, lo diventerà senza dubbio alla sua fine.
Infine – ma è la cosa più importante –, in questa dinamica di manifestazione dell’amore di Dio sulla faccia della terra, non sono all’opera solo gli uomini di buona volontà, ma è all’opera primariamente e permanentemente il Signore Gesù mediante il suo Spirito.
L’uomo non sarà mai lasciato a se stesso, ma potrà operare in dialogo (dia-Lógos) incessante con Dio, nella grazia del suo Spirito. In questa stessa logica, occorre allora rifuggire da ogni impostazione che ponga estrinsecismo tra agire di Dio e agire dell’uomo39.
Del resto, lo stesso Gesù ci ha promesso nel Vangelo secondo Giovanni: «Io, quando sarò elevato da terra [sulla croce e nella gloria del Padre], attirerò tutti a me» (12,32). Nell’ultima cena, poi, il Gesù giovanneo ci ha manifestato che nella misura in cui rimaniamo uniti a lui come tralci alla vite, portiamo «molto frutto» (Gv 15,1-8). Ma a quel punto, l’amore, la gioia, la pace, la pazienza e le virtù che saremo capaci di condividere con gli altri saranno originariamente «frutto dello Spirito» di Gesù (Gal 5,22), risultato della linfa del suo amore che vitalizza noi, suoi tralci. Difatti, nonostante i deliri di onnipotenza di certi «re delle nazioni» (Lc 22,25) – ma forse anche nostri – la rivelazione biblica insegna che, in realtà, non soltanto le radici della libertà umana, ma pure i suoi germogli e addirittura i suoi frutti dipendono dall’azione permanente dello Spirito santo. In fondo, le parabole vegetali disseminate nella Bibbia e in particolare nei vangeli40 non fanno che evidenziare come dalle radici fino ai frutti «l’uomo è una pianta di Dio»41. L’uomo è il tralcio che cresce, germoglia e fruttifica grazie alla linfa che gli giunge dalla vite, che è Cristo. Perciò, la libertà umana fa frutti di bene ogniqualvolta rimane docile all’attività incessante dello Spirito santo. Nel dinamismo della libertà umana, lo Spirito santo è come la linfa, che procede da Cristo, che è la vite piantata nella vigna della storia da Dio Padre, che è il vignaiolo.
4. «Non perdetevi di coraggio!»:
il solido fondamento dell’agapê cristiana
La presente riflessione ha preso le mosse da una parola di «respiro politico» pronunciata da Gesù nell’ambito dell’istituzione dell’Eucaristia (Lc 22,26). A questo punto, si può concludere con una parola di «respiro politico» detta da Paolo, in un contesto anch’esso drammatico e forse anche eucaristico. Si tratta del racconto della tempesta narrata da Atti 27,9-4442.
Probabilmente, proprio la tempesta in cui s’inquadrano queste parole può aiutarci a tornare alla nostra situazione socio-politica, che suscita dubbi nei cuori di molti cristiani: «È davvero possibile per i credenti in Cristo fare ancora qualcosa nella tempesta della politica attuale?»; «Non sarà che il riferimento alla parola di Dio, all’Eucaristia e all’intera vita cristiana sia pura retorica, che non serve a nulla, visto che i giochi si fanno a partire da logiche tutt’altro che evangeliche?».
Anche la situazione vissuta da Paolo era drammatica. Da giorni il mare era in tempesta. La nave su cui era imprigionato l’apostolo stava andando alla deriva (v. 15). Quasi tutti ormai avevano perso la speranza di mettersi in salvo (v. 20). Eppure, si alza la voce di Paolo, che incita tutti a non cedere alla disperazione:
Vi esorto a non perdervi di coraggio, perché non ci sarà alcuna perdita di vite in mezzo a voi, ma solo della nave (v. 22).
Paolo riesce a confortare gli altri perché si appella ad un segno di Dio. La sua parola umana è fonte di speranza per sé e per altri perché comunica una parola di Dio:
Infatti – rivela Paolo – mi è apparso questa notte un angelo del Dio al quale appartengo e che servo – l’apostolo non si vergogna di far riferimento a Dio tra gente in gran parte pagana –, dicendomi: «Non temere, Paolo! Tu devi comparire davanti a Cesare. Ed ecco, Dio ti ha fatto grazia di tutti i tuoi compagni di navigazione». Perciò, non perdetevi di coraggio, uomini! Ho fiducia in Dio che avverrà come mi è stato annunziato (vv. 22-25).
Certo, in apparenza non cambia nulla: la tempesta continua a imperversare per giorni e giorni. Ma il seme della parola di Dio inizia a portare frutti nei cuori delle persone. I presenti cominciano a preoccuparsi del bene comune, fidandosi della rassicurazione di Paolo secondo cui Dio si prenderà cura di tutti. Benché i marinai cerchino di fare i furbi, calando in mare di nascosto la scialuppa per salvarsi da soli (v. 30), i soldati romani, avvertiti dall’apostolo, lo impediscono loro (vv. 31-32).
Poi, Paolo interviene con un’altra parola d’incoraggiamento, accompagnato da un gesto molto significativo:
«Vi esorto a prender cibo; è necessario per la vostra salvezza. Neanche un capello del vostro capo andrà perduto». Ciò detto, prese il pane, rese grazie a Dio davanti a tutti, lo spezzò e cominciò a mangiare (vv. 34-35).
Si sente l’eco dell’ultima cena di Gesù. Il testo degli Atti non è così esplicito, ma molto probabilmente Luca, raccontando questo episodio, ha voluto lasciar intendere che Paolo, in quel frangente, si è messo a celebrare la memoria dell’ultima cena di Gesù. L’efficacia positiva dell’intervento dell’apostolo in quel contesto così drammatico deriva dalla sua capacità di far riferimento in pubblico alla parola di Dio e all’Eucaristia. Paolo diventa memoria vivente di Gesù, ma in una situazione che Gesù non aveva mai vissuto.
«Tutti si sentirono rianimati, e anch’essi presero cibo» (v. 36). Non solo, ma si assiste ad un gesto di misericordia, del tutto inaspettato: incappata in una secca vicino a una spiaggia, la nave sta per sfasciarsi. I soldati vorrebbero uccidere tutti i prigionieri, Paolo incluso, per impedire loro di salvarsi a nuoto e fuggire (v. 42). Ma il centurione interviene e con un atto di carità intelligente – fatto da un pagano! – consente a tutti di mettersi in salvo (vv. 43-44): duecentosettantasei persone salve! (v. 37).
In una società complessa, stratificata e problematica come la nostra, che soprattutto in certe stagioni sembra una nave alla deriva, i cristiani hanno il dovere d’intervenire mossi dalla stessa carità di Cristo. È proprio questa carità, attinta nella Chiesa dalla parola di Dio, dall’Eucaristia e dagli altri sacramenti, che dev’essere giocata non solo al livello dei rapporti immediati, ma anche sul piano delle relazioni istituzionalmente mediate. Facendoci prossimi degli altri a tutti questi livelli, noi cristiani possiamo lavorare efficacemente per il bene comune, nel rispetto di ogni persona: «dato che ci spinge la carità di Cristo, al pensiero che uno è morto per tutti», noi non viviamo più per noi stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per noi (2 Cor 5,14-15).
Franco Manzi
Seminario Arcivescovile di Milano
Venegono Inferiore (VA)