L'ascesa dei 5 Stelle nei sondaggi di questi giorni costituisce la riprova dell'insofferenza del movimento verso un'alleanza innaturale con la Lega che, di fatto, ha giovato solo a Salvini il quale, dopo aver aperto la crisi, si è reso conto troppo tardi di aver improvvidamente rimesso in gioco il partito Democratico. Se il Pd riuscirà, per una volta, a trovare un minimo di coesione interna, non sarà difficile trovare un'intesa con i 5 Stelle tenuto conto, altresì, dei rapporti privilegiati che intercorrono tra la componente renziana del partito e Giuseppe Conte, ormai destinato ad assurgere alla leadership del movimento.
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La crisi di governo aperta da Matteo Salvini rappresenta un errore di cui, col passare dei giorni, si stanno disvelando tutti gli effetti. I sondaggi confermano quanto sia stata infelice la decisione del leader leghista di far cadere il governo facendo ricadere su di sé e su Luigi Di Maio il peso di un contraccolpo politico che ha prodigiosamente trasformato Giuseppe Conte in un improbabile De Gaulle. La scelta di aprire la crisi nel momento più alto del suo consenso personale induce a ritenere che Matteo Salvini abbia sottovalutato le conseguenze che si sarebbero innescate nel campo del suo alleato e amico, Luigi Di Maio, ormai irrimediabilmente estromesso dalla leadership del suo movimento. L'ultima sortita di Di Maio, che l'intero stato maggiore del Pd ha respinto con sdegno, fa capire che all'interno dei 5 Stelle si sia aperto un confronto che finirà, inevitabilmente, per mettere in discussione l'intera architettura del movimento. La crisi di governo, così come l'intera esperienza di questi 14 mesi, ha fatto emergere la rigidità dei processi decisionali di una forza politica che si ostina a vedere nella piattaforma Rousseau l'unica forma di democrazia in grado di rendere effettiva la partecipazione dei cittadini. Sappiamo bene che non è così. Senza scomodare i testi sacri del costituzionalismo moderno e contemporaneo che evidenziano i rischi plebiscitari della democrazia diretta, basterebbe citare qualche episodio per dimostrare che quella piattaforma risulta a dir poco lacunosa. Partiamo dall'investitura originaria di Conte: quanti, tra i votanti di Rousseau, conoscevano effettivamente Giuseppe Conte? Passando in rassegna i provvedimenti approvati dall'esecutivo gialloverde, chi può stabilire il grado di sintonia tra governo e iscritti alla piattaforma? Tornando ad oggi, ha senso consultare gli iscritti dopo aver avviato le trattative con il Pd e, perfino, dopo il conferimento dell'incarico a Conte di formare un nuovo governo? Questi interrogativi impongono, pertanto, una seria revisione delle modalità di selezione della classe dirigente del movimento che, per rispondere dei suoi atti, non può fingere di ignorare il risultato elettorale appellandosi alla sacralità della piattaforma. Pertanto, Luigi Di Maio dovrebbe prendere atto che non è più in grado di rappresentare il movimento che, a causa dell'alleanza con Salvini, ha subito un significativo ridimensionamento elettorale che, senza ulteriori indugi, impone una svolta radicale. L'ascesa dei 5 Stelle nei sondaggi di questi giorni costituisce la riprova dell'insofferenza del movimento verso un'alleanza innaturale con la Lega che, di fatto, ha giovato solo a Salvini il quale, dopo aver aperto la crisi, si è reso conto troppo tardi di avere improvvidamente rimesso in gioco il partito Democratico. Se il Pd riuscirà, per una volta, a trovare un minimo di coesione interna, non sarà difficile trovare un'intesa con i 5 Stelle tenuto conto, altresì, dei rapporti privilegiati che intercorrono tra la componente renziana del partito e Giuseppe Conte, ormai destinato ad assurgere alla leadership del movimento. Le schermaglie di Luigi Di Maio potranno, al più, rallentare, senza impedire, l'avvento del prossimo esecutivo che avrà il compito di “de-salvinizzare” la politica italiana restituendo al paese una chiara e ferma collocazione nella moneta unica e nell'Unione europea. Su questo presupposto, Pd e 5 Stelle hanno l'obbligo di cancellare le polemiche del passato e di gettare le basi per un'alleanza strategica in grado di proporsi al paese come alternativa alla destra. Questa crisi di governo, così gravida di incognite, può essere l'occasione per una definitiva semplificazione del quadro politico che, per la prima volta, potrebbe approdare ad una salutare contrapposizione tra due schieramenti alternativi sul piano culturale e identitario. Perché si possa arrivare a questo, non serve un altro “contratto di governo” ma occorre un governo vero, in grado di interpretare le crescenti insofferenze del nord senza, tuttavia, trascurare le sofferenze croniche del sud. Solo in questo modo si potrà porre un freno a quella duplice secessione che, da anni, serpeggia nel paese e che la politica ha sempre colpevolmente sottovalutato: quella territoriale e, soprattutto, quella generazionale. Alla politica italiana non serve De Gaulle: servono solo tanta umiltà, concretezza e un grande amore per il paese.
Editoriale apparso su La Provincia del 2 settembre 2019