Leggendo i versi che Ungaretti dedica ad un amico arabo, morto suicida a Parigi per non aver trovato una nuova patria e per non saper più assaporare il caffè nel deserto, riscopro con i miei studenti che senza identità non c’è vita, senza memoria non c’è poesia.
Come ogni anno, all’approssimarsi della primavera, leggo con i miei studenti di V Liceo un’ampia serie di liriche tratte dall’Allegria, la prima raccolta di Giuseppe Ungaretti.
Tra le poesie selezionate, non mancano mai, e non solo per il loro indubbio rilievo letterario, due componimenti (“I fiumi” e “In memoria”) centrati sul tema dell’identità e della memoria.
La ragione è evidente: i miei compagni di lettura, spesso distratti viaggiatori, forzatamente coinvolti in un viaggio di cui ignorano persino la destinazione, sono ventenni alla confusa ricerca di sé, alla ricerca di un’identità – individuale e collettiva nello stesso tempo – che in futuro ne sostanzi la memoria.
Ogni volta, leggendo i versi dedicati a Moammed Sceab, l’amico arabo di Ungaretti morto suicida a Parigi per non aver trovato una nuova patria in Francia e per aver disimparato ad assaporare il caffè nel deserto, (ri)scopro con i miei studenti che senza identità non c’è vita, senza memoria non c’è poesia.
Questa volta, però, leggendo di Moammed Sceab, nomade, discendente di emiri, ho incrociato lo sguardo interrogativo di una ragazza marocchina ostentatamente vestita all’occidentale e in rapida sequenza, forse in simultanea, mi sono sentita puntare addosso gli occhi intensi della compagna con il volto incorniciato da un velo.
Leggendo, non più tra le righe del testo bensì in fondo al loro sguardo, anch’io mi sono lasciata interrogare.
Il loro sguardo, però, esigeva una risposta, anzi la risposta. Andiamo così in cerca del senso smarrito delle cose leggendo i versicoli in cui Ungaretti, dopo un bagno purificatore nell’Isonzo, si scopre in armonia con l’universo.
Nelle acque dell’Isonzo, infatti, il poeta passa in rassegna tutti i fiumi della sua vita (il Serchio degli avi e dei genitori emigrati dall’Italia in Egitto, il Nilo dell’infanzia favolosa ai bordi del deserto, la Senna della vorticosa formazione culturale), i fiumi che ne hanno plasmato l’identità, e trova un senso al suo esistere, persino in mezzo alle atrocità della guerra.
Ben presto, però, scopro che l’immersione memoriale non è stata pacificante, almeno non per i miei alunni.
Al contrario, le domande in fondo agli sguardi paiono moltiplicate. Tutti, anche gli studenti italiani, soprattutto (forse) gli studenti italiani, sembrano chiedere in quali fiumi oggi occorra immergersi, a quali fiumi si possa attingere acqua, quali fiumi esistano; come sia possibile, insomma, per citare Bauman, ricomporre i tasselli di un’identità frantumata e riannodare i fili della memoria.
In fondo – mi dico – ho raggiunto quello che ogni giorno mi propongo di ottenere nel mio paziente lavoro quotidiano: i ragazzi si sono lasciati interrogare dal testo, hanno imparato a nutrirsi di dubbi, a diffidare, a rifiutare facili risposte.
Forse, però, hanno semplicemente intravisto nel mio sguardo il nostro disorientamento, la nostra incapacità di elaborare un senso, di costruire appartenenze.
Il titolo dell'articolo si ispira a Azar Nafisi, "Leggere Lolita a Teheran".