Per decenni abbiamo accettato come un fatto costitutivo delle democrazie l'abnorme divario di ricchezza esistente tra classi sociali. Siamo stati educati a ritenere perfino normale che 42 persone (quarantadue!) possiedano una ricchezza pari a quella di 3,7 miliardi di persone o che l'1% più ricco della popolazione mondiale possieda quanto possiede il restante 99%. Oggi risulta chiaro a tutti che, aver confuso democrazia e capitalismo, è stato solo un espediente per sottrarre l'economia al controllo della politica evitando di disciplinare un rapporto che, oggi più che mai, ha urgente bisogno di regole. Di quelle regole che, piaccia o no, spetta solo alla politica determinare.
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Nel dicembre del 1994 alcuni economisti inviarono un questionario a 4 direttori generali di altrettante multinazionali, a 4 ex ministri delle finanze di altrettanti Paesi, a 4 studenti universitari di Oxford e a 4 spazzini. Oggetto del questionario: formulare una previsione sulla crescita economica mondiale, sull’inflazione, sul prezzo del petrolio, sul tasso di cambio della sterlina contro il dollaro nei 10 anni successivi. Il risultato della ricerca, legato all'attendibilità delle previsioni, fu sconcertante: gli spazzini e i direttori generali delle multinazionali ottennero, a pari merito, il miglior punteggio, gli ex ministri delle finanze si classificarono ultimi. Sembra una barzelletta ma non è così. Lo ha raccontato George A. Fontanills (“Manuale del trading in opzioni”), uno dei massimi esperti di trading, scomparso sette anni fa, co-fondatore di Optionetics, azienda leader nel settore dell’editoria e dell’educazione in campo finanziario. Sia vero o no l'aneddoto, il tema che ha per oggetto la scarsa competenza della classe politica nel campo dell'economia e della finanza rappresenta un problema che si tende, spesso, a sottovalutare. Di contro, questo fattore incide in modo decisivo sulla subalternità della politica all'economia che rappresenta la causa principale da cui traggono origine le gravi disuguaglianze esistenti tra popoli e tra classi sociali. Si ponga mente a questo dato: nel '700 il reddito pro-capite del paese più ricco era 2 volte superiore a quello del paese più povero; oggi, il Quatar vanta un reddito pro-capite 428 volte superiore a quello dello Zimbabwe. Siamo davanti ad un problema antico che anche le democrazie tendono ad eludere sotto la pressione di interessi organizzati che hanno la capacità di condizionare i governi nazionali. La storia ha dimostrato che tutte le grandi crisi economiche, che hanno colpito ciclicamente l'Occidente, sono da imputare ai gravi conflitti distributivi di un capitalismo strutturalmente incapace di ripartire la ricchezza prodotta. Si badi, non si tratta di crisi occasionali: 1637, 1797, 1819, 1837, 1857, 1884, 1901, 1907, 1929, 1937, 1987, 1992, 1997, 2000, 2008. Si tratta, dunque, di crisi sistemiche, alcune delle quali di natura bancaria, altre di natura valutaria o legate ai debiti sovrani. La crisi del 2008 rappresenta, per durata, la crisi più grave della storia. Il mercato globale sembra avere ridotto gli intervalli tra una crisi e l'altra tant'è che oggi, davanti al rischio di una nuova recessione, gli esperti usano definire “Douple dip” questo tipo di recessione a forma di “W” che si verifica quando, dopo un iniziale picco negativo, l'economia ritorna a crescere per un breve periodo per poi crollare nuovamente. Le politiche economiche degli Stati, spesso pagate duramente dalle classi più disagiate, non hanno mai saputo opporre un argine alla cronica vulnerabilità del capitalismo che finisce per mettere a repentaglio la tenuta delle democrazie. Storicamente, infatti, tutte le crisi economiche hanno finito per acuire le disuguaglianze sociali, la sfiducia nelle istituzioni e l'individualismo del cittadino. Per queste ragioni, esse rappresentano un pericolo per gli Stati democratici le cui classi dirigenti, ancora oggi, stentano a capire che, un cittadino minacciato da una povertà incombente, non annette alcun valore alla democrazia se, questa, si rivela incapace di realizzare il valore fondamentale su cui essa si fonda: l'uguaglianza. Per decenni abbiamo accettato come un fatto costitutivo delle democrazie l'abnorme divario di ricchezza esistente tra classi sociali. Siamo stati educati a ritenere perfino normale che 42 persone (quarantadue!) possiedano una ricchezza pari a quella di 3,7 miliardi di persone o che l'1% più ricco della popolazione mondiale possieda quanto possiede il restante 99%. Oggi risulta chiaro a tutti che, aver confuso democrazia e capitalismo, è stato solo un espediente per sottrarre l'economia al controllo della politica evitando di disciplinare un rapporto che, oggi più che mai, ha urgente bisogno di regole. Di quelle regole che, piaccia o no, spetta solo alla politica determinare.
Editoriale apparso su La Provincia di lunedì 21 Ottobre 2019