La destra italiana in fermento per la inaspettata svolta di Fini. Forse sta nascendo una destra moderna ed europea che tenta di liberarsi dall'ipoteca del Cavaliere
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La dichiarazione di Fini sulla necessità che la destra italiana debba avere una chiara vocazione antifascista non può essere derubricata a semplice fatto di cronaca. Lasciamo agli storici il compito di valutare le tristi vicende del Ventennio e della successiva guerra civile che dilaniò il paese. Di contro, occorre riflettere sulle molteplici implicazioni che discendono da tale gesto la cui rilevanza politica non va sottovalutata. La prima considerazione da fare è che in Alleanza Nazionale milita un cospicuo numero di nostalgici del regime che non ha accettato di buon grado l’inopinata sortita di Fini. I mugugni e le dichiarazioni di aperta ostilità rilasciate da tanti simpatizzanti di An non lasciano dubbi in proposito. Pertanto sappiamo, ora, con certezza che, come a sinistra, anche a destra il panorama politico risulta alquanto variegato. Esiste, infatti, una destra liberista, una destra sociale, una destra federalista e, infine, una destra che si professa depositaria dei valori della vecchia destra radicale: ordine, nazione e tradizione o, se vogliamo, Dio, patria e famiglia. Questa destra vive defilata e silenziosa da decenni solo perché imposto dalla nostra Costituzione (“è vietata la ricostituzione del partito fascista”). In realtà, riteniamo che questo abbia finito per alimentare le ambiguità di una militanza che, consentita di essere liberamente esercitata, sarebbe risultata più gestibile dalle istituzioni che, di contro, hanno preferito la strada della doppiezza: repressione e tolleranza a seconda della convenienza dettata dal momento storico. Questo segmento radicale di An non ha fatto fatica a riconoscersi nella dirigenza del partito malgrado la svolta democratica del 1993 (congresso di Fiuggi). Non ha fatto fatica perché ne ha scorto la natura tattica imposta dalla opportunità di cogliere al volo l’offerta di Berlusconi di costituzionalizzare il partito e renderlo spendibile per una immediata alleanza elettorale. Non va dimenticato, infatti, che solo qualche mese prima Fini aveva dichiarato che “Mussolini è stato il più grande statista del novecento”. L’ultima sortita di Fini risulta importante perché decreta la fine della tattica e il definitivo approdo ad una visione strategica che impone una svolta culturale in grado di favorire la nascita di una destra moderna e europea (alla Sarkozy, per intenderci). Tale svolta potrebbe calamitare il consenso del vecchio elettorato di centro il quale, mestamente orfano della Democrazia Cristiana, da tempo vagola inquieto e insoddisfatto del Cavaliere, ritenuto troppo dozzinale per poter assurgere al ruolo di statista. Fini ha capito che il cammino iniziato a Fiuggi non poteva subire ulteriori battute d’arresto. Sapeva bene che tale processo lo avrebbe inevitabilmente condotto a prendere le distanze dalla componente più nostalgica del partito che, specialmente negli ultimi tempi, aveva dato preoccupanti segnali di irrequietezza e di smanie revansciste. La svolta di Fini si inscrive in questa logica. Al fidatissimo La Russa spetterà il compito di placare gli animi degli irriducibili cavalcandone il dissenso per poterlo così addomesticare: la conquista del centro non dovrà comportare nessuna perdita a destra. Ma vi è di più. La svolta di Fini nasce anche dalla necessità di affrancarsi definitivamente dall’ipoteca del Cavaliere il cui disegno è quello di succedere a Napolitano lasciando la guida del governo ad un uomo di sicura affidabilità. Con questa spregiudicata operazione appena iniziata, Fini cercherà la propria definitiva legittimazione senza dover attendere l’investitura del Cavaliere che rappresenterebbe comunque un lascito prestigioso ma decisamente ingombrante. Per la destra italiana, pertanto, sembrerebbe l’inizio di una nuova stagione. Sotto la dura scorza del berlusconismo, si scorgono fermenti di cui non è dato conoscere l’esito finale.
Antonio Dostuni