La strage di via Fani rappresenta uno dei momenti più drammatici della storia del nostro paese. Ripercorriamo, momento per momento, le sinistre modalità con cui si realizzò il rapimento dello statista democristiano.
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L’anniversario della morte di Aldo Moro, avvenuto trentadue anni fa, ci offre l’opportunità di ricordare tutte le persone cadute per mano di terroristi, come ad esempio gli uomini della scorta dello statista, ucciso dalle Brigate Rosse (le famigerate BR, l’organizzazione terroristica di estrema sinistra fondata da Alberto Franceschini, Renato Curcio e sua moglie, Margherita Cagol). Questo gruppo eversivo rappresenta il maggiore, il più numeroso ed il più longevo gruppo del secondo dopoguerra esistente in Italia e nell'Europa Occidentale. Secondo fondatori e dirigenti, compito delle BR era quello di "indicare il cammino per il raggiungimento del potere, l'instaurazione della dittatura del proletariato e la costruzione del comunismo anche in Italia". Come i partigiani avevano liberato il popolo dalla dittatura nazifascista, la missione delle BR era quella di affrancare il popolo dalla servitù alle multinazionali statunitensi attraverso atti di "guerriglia urbana" e terrorismo contro i rappresentanti del potere politico, economico e sociale. Per questo motivo, la maggior parte delle vittime delle BR erano forze dell’ordine, politici e magistrati. Ricordiamo che il 16 Marzo 1978 le BR rapirono Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, già cinque volte Presidente del Consiglio dei ministri. Moro era considerato un mediatore tenace e particolarmente abile nella gestione e nel coordinamento politico delle numerose “correnti" che agivano e si suddividevano il potere all'interno del suo partito. L’obiettivo strategico di tale rapimento era quello di ottenere la liberazione di alcuni detenuti, appartenenti all’organizzazione criminale. Ai più giovani va ricordato che il 16 marzo era il giorno della presentazione del nuovo governo, guidato da Giulio Andreotti. La Fiat 130 che trasportava Moro, dalla sua abitazione nel quartiere Monte Mario alla Camera dei Deputati, fu intercettata da un commando brigatista all'incrocio tra via Fani e Via Stresa. In pochi secondi, i terroristi uccisero i 5 uomini della scorta (Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi) e sequestrarono il Presidente della Democrazia Cristiana. La tecnica utilizzata fu quella detta "a cancelletto": si trattava di intrappolare un convoglio di auto bloccando quella di testa e poi chiudendo quella di coda in pochi secondi. Per essere realizzata, si parcheggiavano altre auto nel punto dove si svolge l'azione, per chiudere le vie di fuga. Il convoglio con Aldo Moro era composto da sole due auto:quella su cui viaggiava lo statista e quella di scorta, che lo seguiva. Il piano venne attuato da 11 persone. Alle 8,45 gli uomini del commando BR, che per l'occasione avevano indossato uniformi da avieri civili, si disposero alla fine di via Fani, che è una strada in discesa posta all'incrocio con via Stresa. Nella parte alta Mario Moretti si appostò alla guida di una Fiat 128 sul lato destro, con targa falsa del Corpo Diplomatico (CD). Davanti all’auto di Moretti si posizionò un'altra Fiat 128 con a bordo Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri. Entrambe le auto erano rivolte in direzione dell'incrocio. Sul lato opposto venne parcheggiata una terza Fiat 128, con alla guida Barbara Balzerani, rivolta verso l'alto, cioè nella direzione di provenienza dell'auto di Moro. A qualche metro dall'incrocio con via Fani, lungo via Stresa, era posizionata la quarta ed ultima auto, una Fiat 132 guidata da Bruno Seghetti. Il gruppo di fuoco, composto da quattro persone, era nascosto dietro le siepi che fiancheggiavano la strada. L'agguato scattò non appena il convoglio di Moro imboccò via Fani, dall'alto dirigendosi verso il basso. Fu Rita Algranati a segnalare l'arrivo delle due auto, con un mazzo di fiori. La macchina di Moretti si mise davanti all'auto di Moro e, giunta all'incrocio, si fermò in mezzo alla strada (l'auto di Moretti, in base alla testimonianza di Valerio Morucci, smentita nella successiva perizia della Polizia Scientifica, risultò aver disattivato i segnali di frenata, in quanto erano stati tagliati i fili elettrici che collegavano le lampadine ai fanali posteriori di stop; quindi, l'auto della scorta di Moro tamponò l'auto di Moretti e venne così intrappolata). La Fiat 130 di Moro cercò ripetutamente di farsi largo ma una Mini Minor parcheggiata all'incrocio impedì qualsiasi manovra di fuga. La macchina di Moro e quella della scorta vennero intrappolate dalla 128 di Lojacono e Casimirri che si mise di traverso dietro l'auto della scorta di Moro. A questo punto entrò in azione il gruppo di fuoco: da dietro le siepi sbucarono quattro uomini sparando con mitragliette automatiche. Dalle indagini giudiziarie emerse poi che si trattava di Valerio Morucci, Raffaele Fiore Prospero Gallinari e Franco Bonisoli. L'azione, degna di un attacco di commandos, venne copiata da un'analoga tecnica delle RAF, i terroristi di estrema sinistra tedesca. Vennero sparati in tutto ben 91 colpi di cui 45 colpirono mortalmente gli agenti di scorta. Di questi 91 colpi, i primi a cadere furono, dopo che vennero infranti i vetri anteriori, Domenico Ricci e Oreste Leonardi, l'autista e il capo-scorta dello statista, seduti sui sedili anteriori. Moro, atterrito dalla selvaggia violenza dell’attacco, venne immediatamente costretto a salire sulla Fiat 132 affiancatasi alla vettura di Moro. Quel maledetto giovedì, 16 marzo 1978, Vincenzo, fratello minore di Raffaele Iozzino ricorda: “quella mattina, mio padre e mio fratello erano nell’orto. Con loro avevano una radiolina dalla quale udirono la notizia del rapimento di Moro e corsero in casa allarmati. Non avendo il telefono, si recarono nella più vicina Caserma dei Carabinieri, quella di Gragnano a circa 3 km. Intanto la Tv mostrava le immagini della strage e la prima immagine che apparve fu quella di un uomo della scorta steso a terra coperto da un lenzuolo… era mio fratello Raffaele. I Carabinieri portarono mia mamma e gli altri miei fratelli a Roma mentre io restai a casa con mio padre che si era sentito male. Dopo pochi mesi che era entrato in Polizia, Raffaele fu impegnato nelle contestazioni del ’68 a Milano. In una delle lettere che ci inviava, accennò alla morte di un amico avvenuta durante gli scontri… era consapevole dei rischi che correva quotidianamente. Dato che aveva frequentato un corso per tiratori scelti, fu spedito alla scorta di uomini politici dell’epoca. Nel 1975 entrò a far parte della scorta di Moro che era già un grande politico, aspirante alla carica di Presidente della Repubblica. Facilmente, Raffaele avrebbe potuto ottenere un trasferimento ma nonostante l’attaccamento forte alla sua famiglia, decise di rimanere alla scorta. Solo qualche giorno prima della strage era a casa per le vacanze di Pasqua. Raffaele aveva accennato alle minacce ma nessuno pensava che si potesse arrivare a tanto”. Dopo 55 giorni di prigionia, le Br ammazzarono Aldo Moro.
N.B. L'autrice di questo articolo è nipote di Raffaele Iozzino, uno degli uomini della scorta di Aldo Moro, barbaramente uccisi nella strage di via Fani. Nelle foto della strage, Iozzino è l'uomo riverso per terra, coperto da un lenzuolo.