Nella destra italiana coesistono due culture antagoniste che sanno pragmaticamente ricomporsi a livello locale pur restando diverse nella composizione sociale e nella visione dei rapporti con l'Europa. Tuttavia, malgrado al suo interno convivano un'anima sovranista e un'anima europeista, la destra sa proporsi al paese come una forza di governo capace di sciogliere le proprie contraddizioni. La sinistra dovrebbe imparare a fare altrettanto. E dovrebbe farlo subito, con questo governo, senza nutrire complessi di superiorità nei confronti di un alleato al quale dovrebbe rivolgere il nobile pensiero di Paul Valery: “Arricchiamoci delle nostre reciproche differenze”. Vedremo se ne sarà capace.
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Il battesimo del nuovo governo ha visto il paese dividersi curiosamente nella rabbia e nel sollievo. Risulta facile capire che si tratta di due stati d'animo legati alla figura di Matteo Salvini il quale, al di là di ogni valutazione sul suo operato, vanta tuttora la caratteristica di spaccare il paese. Nulla di inedito nei cieli della politica italiana. Prima di Salvini, infatti, abbiamo visto il paese spaccarsi nell'idolatria o nell'avversione verso Renzi e Berlusconi per cui sarebbe utile riflettere sulle cause che hanno condotto il nostro sistema politico a sacrificare il confronto e a privilegiare la contrapposizione personalistica, spesso virulenta, tra esponenti accomunati dalla medesima capacità divisiva. La crisi dei partiti rappresenta la causa principale dell'avvento di questo nuovo paradigma che annette al leader quella centralità che, di contro, dovrebbe spettare alle compagini e ai programmi. Avere ridotto la politica ad uno scontro tra leader ha condotto inevitabilmente ad un graduale impoverimento del dibattito pubblico che ha finito per modellarsi sullo stile dei diversi protagonisti. Rispetto al passato, oggi l'elettorato è più incline a recepire e adottare le medesime forme espressive dei leader di riferimento il cui lessico, infarcito di slogan, è destinato a circolare nelle vene dei social e dei talk show televisivi. La spettacolarizzazione della politica ha portato a questo, come molti già paventavano agli albori del berlusconismo. La storia ha, dunque, presentato il conto a tutti coloro che, per anni, hanno lanciato strali contro il sistema dei partiti alimentandone continuamente il discredito. La critica contro i fenomeni corruttivi riscontrati all'interno dei partiti, pur legittima, ha avuto come effetto collaterale quello di ridare fiato a quelle componenti antidemocratiche e antiparlamentari che, per decenni, hanno vivacchiato ai margini del sistema pur lucrandone, spesso, laute prebende. Uno degli errori più gravi commessi dall'establishment italiano è stato quello di ritenere il paese definitivamente “conquistato” dalla democrazia. Questo equivoco ha portato a sottovalutare le conseguenze dell'attacco al sistema dei partiti che una parte del paese ha iniziato a coltivare con il preciso intento di delegittimare le istituzioni democratiche. Non è un caso che, con l'avvento di Silvio Berlusconi, abbia avuto inizio la stagione del revisionismo e delle critiche alla nostra Costituzione che, fino a quel momento, nessuno aveva mai osato mettere in discussione. Già sul nascere, la celebrata “rivoluzione liberale” degli anni Novanta abortiva miseramente perché aveva “in nuce” quella deriva plebiscitaria che ha condotto il paese a coltivare questa idea distorta di democrazia dominata dal leaderismo. La sinistra e il mondo della cultura, pur osteggiando a parole questa metamorfosi del sistema politico, non ha mai fatto nulla per contrapporsi: le stesse investiture di Prodi, poi di Veltroni e, infine, di Renzi, nascevano nell'alveo del berlusconismo di cui la sinistra ambiva a rappresentare una variante democratica attraverso l'esistenza di una struttura di partito. Alla sinistra, tuttavia, non riesce facile gestire e padroneggiare quel modello carismatico, per svariate ragioni, spesso legate alla sua storia. Siamo, pertanto, arrivati al nocciolo della questione. Da quasi trent'anni, la politica italiana continua a vivere un'accesa conflittualità tra i due schieramenti che si disputano la guida del paese. La destra continua a fare proprio il modello populista, di matrice berlusconiana, che si fonda sul primato del leader che si sceglie i collaboratori e la squadra dei parlamentari. Questo è il modello organizzativo della destra italiana sotto il quale coesistono due culture antagoniste che sanno pragmaticamente ricomporsi a livello locale pur restando diverse nella composizione sociale e nella visione dei rapporti con l'Europa. Tuttavia, malgrado al suo interno convivano un'anima sovranista e un'anima europeista, la destra sa proporsi al paese come una forza di governo capace di sciogliere le proprie contraddizioni. La sinistra dovrebbe imparare a fare altrettanto. E dovrebbe farlo subito, con questo governo, senza nutrire complessi di superiorità nei confronti di un alleato al quale dovrebbe rivolgere il nobile pensiero di Paul Valery: “Arricchiamoci delle nostre reciproche differenze”. Vedremo se ne sarà capace.
Editoriale apparso su La Provincia del 9 settembre 2019