Una riflessione di grande erudizione per confutare una delle teorie più aberranti esistenti in campo musicale: ogni composizione musicale ha una struttura di tipo matematico.
Dicono, con frequenza sempre più allarmante, che "la musica è matematica". E' diventato ormai un luogo comune, visto di buon occhio anche dai musicisti, che hanno la coda di paglia perché sotto sotto sono i primi a risentire di un pregiudizio medioevale che ancora li infastidisce: quello di essere considerati "vili meccanici", cioé esecutori senza scienza e senza filosofia. E allora ben venga chi paragona la musica alla nobile Scienza dei Numeri.
Ma la prossima volta che qualcuno ripeterà che "la musica è matematica", provate timidamente a chiedergli perché. Vedrete: non si trova quasi mai risposta.
Qualche strumentista a volte fa riferimento alle frazioni numeriche che indicano il ritmo all'inizio degli spartiti, o ai rapporti fra le durate delle note o se va bene alle frequenze. Ma a rigore di termini, quella sarebbe aritmetica. E poi sarebbe come dire che la geometria è matematica perché prima o poi usa dei numeri e delle frazioni. O che il gioco del Lotto è matematica per lo stesso motivo, oltre che naturalmente geografia - ruota di Napoli, di Milano, di Genova ecc.
In realtà, ben pochi conoscono abbastanza professionalmente la matematica e la musica da poter argomentare in modo efficace partendo da un simile assunto e chi potrebbe farlo evita di imbarcarsi in una grana di questo calibro. Si rischia di poter dire alla fine che la musica è matematica perché Einstein suonava il violino.
Invece Pitagora ci si è buttato a pesce. Anziché rifarsi ai quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco) come i filosofi che l'hanno preceduto, ha deciso che l'essenza del mondo - e del suono - è il numero. E perché? Secondo Carlo Sini, autore di manuali di Storia della Filosofia, Pitagora è riuscito a definire gli intervalli musicali con dei rapporti numerici e ne ha dedotto che tutto può essere reso numericamente. La musica doveva essere ben importante, per i greci, se una simile mente ha concepito un'idea del genere. Ma andiamo con ordine.
Pitagora, per prima cosa, ha inventato uno strumento di misurazione degli intervalli musicali (uno dei primi della storia occidentale), il "monocordo". Ha teso cioé una corda, presumibilmente di minugia di pecora, sopra una scala graduata - cioé per comodità immaginiamoci un manico di chitarra con una sola corda, e un decimetro da sarta steso sotto di essa.
In secondo luogo, ha pizzicato la corda libera, stabilendo che a quel suono corrispondeva il numero uno. Ha poi premuto la corda esattamente a metà della sua lunghezza, ottenendo un suono intonato esattamente un ottava sopra, e lo ha chiamato 1/2. Premendo la corda in modo da intonarla via a via a tutti gli altri suoni della teoria e della pratica musicale greca (ovviamente andava a orecchio), ha verificato poi che ai diversi intervalli corrispondevano frazioni ordinate: 2/3, 3/4, 4/5 e così via. Di qui è partito il suo delirio numerico-ordinativo, che come sappiamo doveva portarlo molto lontano (e noi con lui, a misurare i poderi coi suoi teoremi e per l'appunto a ripetere: "La musica è matematica").
Vita ben strana, quella di Pitagora e dei suoi discepoli. La sua Accademia, situata a Crotone, è stata una delle prime Università italiane (6°/5° secolo a.C).
Il Venerabile Maestro parlava ai neo-adepti attraverso una tenda, e solo dopo alcuni anni li ammetteva alla propria presenza.
La vita, per gli affiliati, era dura. C'era un'iniziazione, e severe regole di vita (anche alimentari: ad esempio, erano proibite le fave). Non si poteva, pena la morte per mano di sicari, andare a chiacchierare in giro di ciò che si studiava e men che meno parlare apertamente dei problemi teorici del pensiero del Maestro (ad esempio, poteva risultar fatale confessare che non c'é rapporto numerico fra il lato del quadrato e la sua diagonale, che quindi ancor oggi risultano incommensurabili. Anzi, poteva risultar fatale usare tout court la parola "incommensurabile").
Ma di Pitagora si seguitavano a dir meraviglie. Pare che avesse il dono dell'ubiquità e della profezia. Pare che celebrasse le sue scoperte con feste mirabolanti ed eccessive (quando gli riuscì di dimostrare il teorema che porta il suo nome e oggi si studia nella scuola media inferiore, organizzò un' ecatombe di ringraziamento rimasta memorabile: un'infinità di bestie sacrificate al quadrato di cateti e ipotenusa).
Pare infine che fosse un guaritore. Vicina a Pitagora era sicuramente la scuola medica di Alcmeone, che praticava la dissezione e basava rigorosamente la ricerca sull'esperienza diretta, piuttosto che sul mito - a dirlo oggi sembra banale, ma a quei tempi chiamavano l'ictus e gli altri coccoloni "una freccia dell'arco di Apollo".
L'esperienza dei pitagorici, oltre che per la risonanza di alcune contraddizioni interne al loro pensiero (come quella citata sopra) andò a ramengo anche per motivi politici. Aristocratici di impianto, i Pitagorici si ritrovarono dalla parte dei vinti quando il movimento democratico prese il potere. Molti pitagorici morirono nel rogo - doloso - della casa di uno di loro, Milone, dov'era in corso un'assemblea dei vertici della setta. Si dice che fosse presente anche il Venerabile Maestro in persona, riuscito a svignarsela per un soffio, balzando ultrasettantenne su una nave per Metaponto, dove morì poco dopo. Forse.
Forse, perché sembra che ci siano stati rapporti fra Pitagora e la setta orfica, paladina precristiana della Reincarnazione (ciò spiegherebbe anche l'impianto monastico della scuola di Crotone, e anche tanto attaccamento alla musica, l'arte del capostipite Orfeo). Sono poi al vaglio degli studiosi, ancora come semplici indizi, suoi eventuali rapporti con il lontano oriente (esistono somiglianze di teoria musicale, e addirittura identità di procedimenti di suddivisone dell'ottava fra pitagorici e cinesi dell'epoca corrispondente) e con i discepoli del Budda storico, un altro Maestro della Reincarnazione contemporaneao di Pitagora.
Pitagora, grande iniziato, è dunque passibile di ritrovarsi in quella schiera di Immortali che dalla tradizione orfica sono transitati per il Cristianesimo e il Buddismo, con contatti non sporadici con egiziani e ebraismo, su su fino ai Templari, ai Rosa Croce e alla Massoneria, nonché alla Sinarchia di Umberto Eco.
Tutte queste sette hanno come è noto reclutato una folta rappresentanza di musicisti, oltre che di matematici. Giorgio Mainerio, Haydn e Mozart, forse Satie, dicono anche Stockhausen, (ma si tratta di persona vivente e anche se ciò dato il clima di metempsicosi generalizzata significa poco, è meglio non sbilanciarsi: lo dicono, e sotto la mia responsabilità posso solo riportare che qualcuno lo dice). E poi Cartesio, Bacone, Spinoza, Liebniz (idem come sopra, c'é chi dice sì e chi dice no).
Ed ecco perché si è sempre percepita l'esistenza di un rapporto fra musica e matematica. Perché di vita in vita, Pitagora potrebbe aggirarsi ancora adesso nelle Aule della Cultura assieme a tutti costoro. Avanti e indietro, come Orfeo per recuperare Euridice, dal Regno dei Morti.
Nonostante questa autorevole presenza, però, non c'é oggi evidenza scientifica di un vero e proprio rapporto privilegiato fra le due scienze. La matematica per statuto può essere a monte di molte discipline e di qualcun'altra più a buon diritto: è o non è la forma-denaro dell'intelligenza?
Anche Severino Boezio c'é cascato. Dopo aver trascritto il pensiero musicale greco e romano nel suo "De Musica", ha aggiunto alla "Musica delle sfere" della tradizione (il suono inudibile dei corpi celesti nelle loro traiettorie) la "Musica del mondo" prodotta dal rimescolio dei quattro elementi. E manco a dirlo, ha affermato per certo: "La composizione della nostra anima e del nostro corpo avviene in base a una proporzione matematica che dà origine alle armonie".
Con tutto ciò, chi dice oggi che "la musica è matematica" in realtà vuol solo dire che il brano che ha appena ascoltato gli è piaciuto molto, che ne ha tratto un senso profondo che non riesce a spiegare così come non si può spiegare la Fede (e ben venga: se ci riuscisse, dimostrerebbe l'inutilità del brano musicale, visto che può descriverlo con le parole o con i numeri).
A voler ben guardare, però, ci sono altri motivi per cui la musica viene a volte detta "matematica". Il pentagramma, ad esempio. Pentagramma, come dice la parola stessa, sono quelle cinque righe su cui la musica viene annotata. Come puro segno ha assunto il significato automatico di "poesia","romanticismo", "sogno", "creazione" e via sdolcinando, tant'é che lo si utilizza perfino per decorare le scatole di cioccolatini.
In realtà il pentagramma è un banale asse cartesiano da molti secoli prima che Cartesio comparisse sulla faccia del mondo.
Sull'asse delle ordinate abbiamo le frequenze, ovvero l'altezza delle note indicata col loro nome. Ogni rigo e ogni spazio del pentagramma ne definisce una, mentre le diverse chiavi individuano l'ambito delle altezze di cui si tratta. Abbiamo quindi la chiave di sol , detta "di violino" perché rappresenta tutte le frequenze raggiungibili da quello strumento; la chiave di fa detta "di basso" rappresenta le note più gravi, cantabili appunto dalla voce di basso; così via contralto, soprano, baritono eccetera. Ognuno di questi ambiti può essere esteso con note "sopra le righe" (ma anche sotto). Dobbiamo quindi immaginare il pentagramma come un n - gramma, con tanti righi e spazi quante sono le note effettivamente usate in musica (cioé più o meno tante quanti sono i tasti di un pianoforte gran coda): un bell'affollamento, che non permetterebbe di leggere a prima vista una partitura. Vedremmo le note nereggiare (o biancheggiare) in un foglio interamente rigato. Proprio questa difficoltà ha indotto i teorici a ridurre il numero dei righi e a inventare le chiavi.
Sull'asse delle ascisse abbiamo la durata delle note, che oggi potrebbe benissimo essere espressa in valori numerici esatti: in qualsiasi Liceo Scientifico si possono misurare durate di fenomeni fino ai cinquantesimi di secondo, quindi a fianco o sopra ogni nota si potrebbe scrivere la sua durata in numeri riferiti a un'unità discreta di tempo. O indicare ogni nota con un segmento, di lunghezza calcolata sull'unità scelta per le ascisse (in questo modo grafico scrivono musica i computer prima di tradurre in notazione classica). Ma questa grafia è illeggibile per uno strumentista umano: può essere analizzata e compresa con calma e gesso ma una sua esecuzione in tempo reale è roba da cervelli elettronici imbecilli o idioti geniali come "Rain Man".
Così, già alcuni secoli prima di Cartesio, si è scelto di utilizzare dei simboli che si adattano a ogni nota (ovvero a ogni posizione sui righi o negli spazi) e ne indicano la durata tradotta nel numero di unità di tempo o il loro sottomultiplo. Ecco quindi i quarti, gli ottavi, i sedicesimi col loro disegnino. Quarti, ottavi e sedicesimi di cosa, per la miseria? Quarti, ottavi e sedicesimi dell'accento musicale più forte, fenomeno ricorsivo a carattere probabilistico che ci permette di ballare ad esempio il valzer (e qualsiasi altro ballo).
Il pentagramma e dei simboli per le durate, dunque.
Per la verità, non è che sia stato scelto subito il cinque, come numero perfetto per i righi musicali. Per lunghi periodi ha regnato l'arbitrio, e ogni autore ha deciso di suo gusto: anche per rendere meno facilmente decifrabile, cioé plagiabile, la sua musica.
Si sa di Frescobaldi, che utilizzava fino a dieci righi, e per dileggio scriveva a pié di pagina delle sue opere: "Intendetemi voi ch'io ben m'intendo".
Questa annotazione aveva anche un altro senso. Era una specie di dichiarazione di resa. Voleva dire che la scrittura musicale non bastava a rendere conto dell'esecuzione richiesta o della musica che avrebbe risuonato. Bisognava che lo strumentista in qualche modo conoscesse "l'intenzione" dell'autore. Cioé avesse sentito eseguire il brano da lui, per poterlo interpretare così come doveva effettivamente suonare. E qui veniamo al dunque.
Per lunghi secoli, la grafia musicale - la "matematica" - non aveva granché da spartire con la musica vera, quella che si suona e non si legge, quella che ascoltiamo e che sola ha diritto di essere chiamata musica. Era una specie di pro-memoria che doveva essere supportato da regole tramandate oralmente. A partire dagli inizi del secondo millennio (prima il ritmo era dato dalla metrica poetica, e le note venivano scritte con dei segni sopra le sillabe) sempre più, è andato precisandosi un modo - appunto quello dei simboli corrispondenti a multipli e sottomultipli dell'unità di tempo - ma l'Ars Mensuralis, di cui riparleremo, non ha mai preteso di misurare la musica come se le note fossero carote o cipolle.
Fino a tutto il settecento (e oltre, ma con un po' meno elasticità e senza più ammetterlo) il compositore pensava quindi una musica e la scriveva per approssimazione, sapendo come gli esecutori avrebbero compreso e interpretato i suoi segni grafici. Il compositore era egli stesso esecutore, e possedeva quindi i codici dell'arte pratica: se trovava ad esempio una fila di note uguali, sapeva che doveva eseguirle una diversa dall'altra, con swing (e non tutte pedissequamente identiche come farebbe un computer o uno studente che suona a metronomo). Quindi le scriveva uguali, ma sapeva che chiunque le avrebbe eseguite diverse una dall'altra, secondo un criterio detto di "varietà nell'unità" oppure "unità nella varietà": con sfumature ritmiche, con differenze nell'emissione di ogni singola nota e nell' espressività. Lo stesso discorso valeva per gli abbellimenti, cioé i trilli, i mordenti e i gruppetti: nessuno si sognava di scriverli per esteso, né di definire quale abbellimento preferiva: metteva semplicemente una crocetta sopra la nota, lasciando all'esecutore la facoltà di scegliere quale abbellimento usare. Oppure non metteva niente. Tanto, se proprio lo strumentista non era un cretino, grossi strafalcioni non ne avrebbe perpetrati. In una lettera, Rousseau (il filosofo) rimproverava a Rameau (il musicista) di non aver scritto un trillo cadenzale. Rameau gli rispose che era una critica da dilettanti, perché qualsiasi professionista sapeva che in cadenza il trillo è obbligatorio, senza bisogno di trovarlo scritto. Altro che matematica.
Già Bach era più esigente e preciso, e da lui in avanti la musica cambia ancora. Spinoza, Liebniz e poi Cartesio lanciano il sogno scientifico. Tartini indaga le ragioni fisiche del "terzo suono" e dà i numeri esatti al fenomeno (senza mai peraltro sostenere che la musica è matematica). Bach tempera la scala tagliando i semitoni a fettine, però a orecchio come Pitagora, Bohm studia a forza di numeri dove mettere i buchi nel tubo del flauto e così via.
In musica ci si illude fra l'altro di poter avvicinare la grafia musicale all'esecuzione fino a farle coincidere (ma a questo punto a cosa serve suonare una musica? Basta leggerla).
I "Lumi" prima il Positivismo poi intasano le partiture di nuovi segni grafici. L'unità di tempo viene affidata al metronomo di Manzel, un compagno di bevute di Ludwig Van Beethoven. Pian piano diviene secondaria l' indicazione di tempo in italiano ( "allegro" "presto" ecc) fino ad ora internazionalmente usata, e si indica il tempo di metronomo, espresso in battiti per minuto.
Ognuno scrive i suoi precetti in lingua madre, fino agli eccessi di Gustavo Mahler che in qualche caso ha dato indicazioni di tempo e di espressione a ogni battuta, nella speranza - vana - di rendere sempre più "oggettiva" la grafia musicale.
E finalmente entriamo a capofitto nel Novecento, secolo in cui il problema è stato bellamente risolto. L'errore era d'impianto. E' vero che si può scrivere la musica come essa risuona, ma non sulla carta: sul nastro magnetico o su altri supporti. Scrivere musica, affidarla ad altri esecutori o alla memoria dell'Umanità, significa registrarla su un fonografo a cera Edison (prima) o farne un disco (poi). Dalla registrazione i musicisti possono rifare un'esecuzione (quasi) identica a quella pensata dal compositore. Per assurdo, si può dire che scrivere e leggere la musica non serve più: bisogna finalmente tornare a sviluppare solo l'orecchio, e usare gli occhi per i loro compiti istituzionali: contemplare la natura, le belle arti, le belle signore e i figli che ci regalano.
Anche se proprio riguardo alla funzione dell'occhio nella composizione musicale si dà un caso interessante.
Da quando la scrittura musicale è andata precisandosi in senso cartesiano, è pure capitato che si affermassero concetti visivi della musica. Così nel contrappunto abbiamo le voci che procedono "per moto contrario" (una sale e l'altra scende, determinando in partitura un bel disegnino con due curve sovrapposte, una concava e una convessa); "per moto parallelo", (salgono o scendono insieme, come due binari che viaggiano sul pentagramma).
Nella composizione abbiamo temi e motivi "a specchio", con una melodia che si presenta nella scrittura esattamente come quella che l'ha preceduta, però vista in uno specchio, cioé in qualche modo capovolta. Ci sono poi le melodie "cancrizzanti", quelle cioé che ripetono a rovescio un tema già esposto, a partire dall'ultima nota verso la prima. Vere e proprie "rovesciate", dove gli intervalli vengono ribaltati come omelettes. Nella composizione dodecafonica, (Schoenberg, Berg e Webern - la Scuola di Vienna) che ha ripreso molti di questi espedienti usati già dalla scuola fiamminga nell'autunno del Medio Evo, il concetto è stato esteso. Le note di una melodia - che si sviluppano quindi sul pentagramma in senso "orizzontale" - possono essere utilizzate per formare l'accordo che la accompagna, sviluppandosi nella partitura in senso "verticale" - una pila di note affidate a strumenti diversi nello stesso istante. Un po' come il celebre acrostico della cattedrale di Mileto, se si immagina che ci siano dei suoni invece delle lettere latine:
flauto: SATOR
violino: AREPO
viola: TENET
cello: OPERA
basso: ROTAS
Si tratta di cose (forse) impossibili da inventare come pensiero musicale, cioé ascoltando suoni interiori senza una partitura davanti, a meno di non essere come Mozart (che sapeva ripetere lunghissime frasi, in musica e in tedesco, dalla fine all'inizio). E' infatti una tecnica compositiva basata sulla grafica, e quindi sull'occhio più che sull'orecchio, che interviene in un secondo tempo per controllare che tutto fili. Insomma, come in matematica da una espressione numerica grazie agli assi cartesiani si può risalire a una espressione grafica e viceversa, così in musica è possibile risalire dall'effetto visivo alla resa acustica. E questa resa acustica, di maestro in maestro, influenza il pensiero musicale futuro, che rimane per così dire sagomato anche graficamente. Un rapporto profondo e intricato fra occhio e orecchio. Profondo e intricato come quello che fisiologicamente abbiamo in mezzo al cranio fra i bulbi oculari e l'orecchio interno, e ci aiuta a intonare la voce "guardando" la nota, cosa che insigni maestri di coro a volte richiedono. O come le note "alte" e quelle "basse" (anche se questo modo di dire è solo apparentemente riferito allo spazio, e in realtà dipenderebbe dal volume richiesto per la emissione). Un bel casino.
Comunque sia, nel corso dei secoli i compositori hanno acquisito la capacità di capire a colpo d'occhio, basandosi sulle proporzioni delle linee, se una musica suona bene o no. La musicologia tedesca ha battezzato questa pratica Augenmusik, musica degli occhi. Ai giorni nostri, alcuni compositori (Bussotti, ma anche Berio, a volte, poi Donatoni e Nono) hanno spinto la Augenmusik fino al punto di creare partiture che si potrebbero esporre in una mostra d'arte grafica - "Quadri di una esposizione", ma a rovescio. Altri hanno pure cercato di puntualizzare i rapporti fra colori in senso proprio e '"colori" orchestrali (Skriabin, Schoenberg che era anche pittore) ovvero i timbri degli strumenti, detti in tedesco e a volte anche in italiano "colori del suono" (Klangfaerben). Non manca chi definisce "puntiforme" un brano musicale fatto di brevi note spezzate, altri chiamano "nebbia" il riverbero e le risonanze.
Ma poi torna il numero, il MIDI e i sistemi digitali - il computer su cui si danno dei numeri per ricavarne musica o musica per ricavarne numeri. Il pensiero analogico viene messo al bando.
Le scariche elettriche generate dal microfono sollecitato dal suono o direttamente dall'oscillatore che lo genera vengono infatti trasformate da un software appropriato in espressioni numeriche, poi ancora in grafici cartesiani, e alla fin fine ancora in musica scritta e eventualmente di nuovo suonata. Ma scritta come?
Le scelte sono tre:
A) la musica che io suono o canto viene rieseguita dal computer esattamente come la ho suonata o cantata; la scrittura automatica è però ineseguibile da un musicista umano, con tutti gli abbellimenti, i ritardi e gli anticipi resi minuziosamente come piacerebbe a Bach (un groviglio di note e ritmi complicatissimo);
B) la musica viene scritta in modo approssimato ma comprensibile ed eseguita dal computer a metronomo, piatto e schifoso, e per nulla aderente all'originale intenzione. A questo punto spiegare a uno stupido Macintosh tutto ciò che deve fare per umanizzare l'esecuzione è bensì possibile, ma richiede molto più tempo che istruire un'orchestra di deficienti;
C) un compromesso fra le due estremità esiste ma è più laborioso che scrivere a mano o far imparare la parte a orecchio;
Cosa resta da fare? Proprio adesso che la perfezione tecnologica ci permette di raggiungere la massima oggettività pensabile nella scrittura musicale, tagliando via le colorite ma imprecise espressioni a cui ci siamo abituati, dobbiamo tornare alle origini. Si scrive come si può, come ci hanno insegnato a scuola, e per l'esecuzione non resta che spiegare agli strumentisti come devono interpretare i segni. Un po' per iscritto, ma per la maggior parte a voce. Cantando o suonando. Del resto il mondo interiore di un musicista non è fatto di segni grafici e di numeri. E' fatto di suoni mentali.
Ma in definitiva resta inevasa la domanda iniziale. La musica è matematica o no?
Abbiamo detto che si può scrivere approssimativamente su un asse cartesiano e precisamente sul nastro magnetico. E da quando il nastro magnetico è stato sostituito dai sistemi digitali (CD e DAT, ma anche MIDI) si può arrivare anche a trascriverla su un pentagramma, con un corredo di espressioni numeriche (una decina di parametri per ogni nota) che indicano come il compositore vuole sia eseguita - se non si perde per strada anche lui.
Insomma, credevamo di essercela cavata, pur con qualche volteggio. Invece c'é chi ancora più a monte non accetta nemmeno il dialogo e afferma che la musica registrata, semplicemente, non è vera musica.
Ammettono per forza che al giorno d'oggi, con molte giornate di lavoro per un paio di ingegneri e due o tre compositori, sia possibile riprodurre su CD qualsiasi brano per pianoforte con lo stile e il suono di Benedetti Michelangeli. Ma insistono che per loro l'unica vera musica è quella eseguita da esseri umani in carne, ossa e sudore. Non vanno cioé bene neanche i dischi registrati tradizionalmente, due microfoni e via, per quanto la fedeltà possa essere altissima.
La posizione è rispettabile per il semplice fatto che nemmeno l'altoparlante più sofisticato riuscirà mai a somigliare a una atletica arpista di ventisette anni. E' purtroppo vero però che la maggior parte della musica che oggi risuona è frutto di "riproduzione meccanica", come dice e tassa la SIAE. E allora?
Allora la sentenza resta ai posteri, se avranno del tempo da perdere. Il vinile imbustato è indistruttibile, i CD e i dischetti ancor più, quindi probabilmente fra due o trecent'anni la nostra musica sarà solo quella registrata, così come per noi è stata solo quella su pentagramma (o tetragramma, o dodecagramma). La capiranno come noi, i posteri? E noi capiamo davvero la musica antica? Ma i posteri ce le avranno le orecchie? La domanda appare paradossale, ma è legittima se si pensa all'inquinamento acustico e nucleare, se si pensa cioé:
1) ai tagli drastici che può operare la selezione naturale data la rumorosità insopportabile a cui viene sottoposto il genere umano;
2) alle mutazioni indotte dalla radioattività e dall'inquinamento chimico;
Oltretutto qualcosa del genere può essere già successo:
A) qualcuno ha analizzato i frammenti di musica greca giunti fino a noi e ha ipotizzato nientemeno che gli antichi avessero un sistema auditivo fisiologicamente diverso dal nostro;
B) la sonorità degli strumenti del '700 è ben minore degli stessi strumenti costruiti oggi. Perchà il nostro udito è calato dopo la Rivoluzione Industriale;
Quindi ai posteri resteranno solo i computer. Ben vengano dunque anche le belle espressioni numeriche affibbiate a ogni fenomeno acustico, e buonanotte suonatori. Così la musica si può davvero scrivere, perché passi alla Storia. Ma non è più musica. E' matematica (Oops!).
Consigli di ascolto:
"Il velo dissolto", di Franco Donatoni, gran veronese che un po' di Augenmusik in vita sua ne ha fatta.
"Zeitmasse" di Karlheinz Stockhausen, un brano intessuto di relatività einsteiniana