Alla fine dell'anno scolastico giunge, puntuale come i monsoni, il dibattito sulla scuola italiana. Alunni e professori protagonisti di un sistema scolastico sempre più vituperato e sempre più colpito dalla scure dei tagli finanziari. Cambiano i governi del paese ma la scuola resta sempre più sola e negletta, al di là dei soliti, scontatissimi proclami.
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La fine dell’anno scolastico ripropone all’attenzione dell’opinione pubblica l’annoso problema della scuola. Sull’argomento non si contano i dibattiti e gli interventi, non ultimo quello del Governatore della Banca d’Italia, Draghi. In tema di scuola, la politica ha sempre mostrato la sua sconsolante pochezza. Per il ministro di turno c’è sempre poco da stare allegri: senza palanche, è inutile farsi illusioni. Non a caso il Ministero della Pubblica Istruzione è sempre quello meno appetito nella bagarre che accompagna la nascita di un governo. Come sempre, anche stavolta si parla di rilancio del sistema scolastico. Peccato, però, che alle parole non seguano mai i fatti. Il 95% del bilancio ministeriale viene drenato dagli stipendi che, per sovrammercato, sono da fame. Rilanciare la scuola significa, pertanto, stanziare denari: tutto il resto sono panzane da raccontare ai gonzi. Siccome i professori italiani non lo sono, ecco che, ogni volta che c’è un ministro che favoleggia di rilancio e di riforme, i prof lo guardano accigliati chiedendosi se anche questo, come tutti i suoi illustri predecessori, ci sta provando. La verità è che in Italia abbiamo falangi di prof che non hanno programmato l’accesso nella scuola ma vi sono approdati di contraggenio, giusto perché il mercato non offriva altro. Il problema principale, pertanto, è quello di poter programmare il ruolo di insegnante fin dal diploma facendo sapere ai nostri ragazzi che tale ruolo conferirà sicurezza e prestigio. Poiché, inutile nasconderlo, il prestigio sociale è inscindibilmente connesso a quello economico, bisogna dire senza infingimenti che per riaccreditare nella società il ruolo dell’insegnante bisognerà accettare l’idea di pagarlo meglio. Un ragazzo laureatosi brillantemente alla Bocconi o alla Normale di Pisa dovrà quindi vedersi allettato dall’idea di diventare docente. Questo significa che occorre garantirgli uno stipendio in grado di assicurargli status e prestigio. In caso contrario, quello studente non si accosterà mai all’esperienza scolastica salvo non abbia bisogno di raccattare provvisoriamente un primo impiego per poi svignarsela a gambe levate appena possibile. Siamo onesti: in questo paese, la cultura non paga. Da anni si dice che stiamo arretrando sul terreno della ricerca e dell’innovazione ma i governi succedutisi in questi anni non hanno mosso un dito. Come succede in altri campi, la scuola italiana va avanti da sola, per inerzia. Ogni riforma non è riuscita ad intaccare minimamente l’inefficienza strutturale del sistema che seguita a sopravvivere grazie alle prodezze dei singoli: bisogna avere la fortuna di incontrare il docente bravo così come bisogna essere fortunati nell’incrociare il chirurgo scrupoloso. In caso contrario, il cittadino è rovinato. Come diceva Bertold Brecht, “sventurata è la terra che ha bisogno di eroi”. Questo è il vero dramma della società italiana. Quando gli americani hanno scoperto che i propri studenti venivano annichiliti in matematica dagli studenti cinesi, hanno avuto l’umiltà di copiare in toto la didattica cinese. Ed hanno investito nella scuola. Per i tedeschi, Fiat è sempre stato l’acronimo di “Fehler In Aller Teilen”, cioè, difetto in ogni pezzo. Dopo anni di insuccessi, Marchionne ha fatto come hanno fatto gli americani con i cinesi, cioè, si è messo a studiare i tedeschi nella convinzione di poterli un giorno superare. La politica italiana deve partire da questi esempi per capire che rilanciare il sistema scolastico è vitale per il nostro paese. Il compito di ognuno di noi è credere che soltanto con l’arma della cultura potremo andare incontro al futuro in modo sereno, senza le ridicole ansie legate a improbabili invasioni di barbari immaginari.