Se fossimo un paese normale, davanti alla inquietante opacità delle modalità di finanziamento del sistema politico, un cittadino virtuoso dovrebbe rivoltarsi sdegnosamente. Di contro, il paese assiste con indifferenza a quel “mostruoso connubio” tra politici, imprenditori e professionisti che continua a vedere nello spazio pubblico l'occasione per fare denari con un cinismo scellerato e, talora, perfino disumano: “topi sul formaggio”, come scrisse Paolo Sylos Labini 40 anni fa. Clientelismo e corruzione sono diventate una patologia sociale che rispecchia il volto di una classe dirigente inguaribilmente incline al malaffare, che, con la complicità della politica, è diventata un alibi collettivo che legittima ogni devianza, piccola e grande.
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Dopo l'abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, le fondazioni sono diventate il nuovo polmone finanziario utilizzato dalla politica per garantirsi il sostentamento e per assicurare un assoluto anonimato ai generosi sovventori. Attorno ai partiti italiani si sono moltiplicate per gemmazione queste inedite strutture che formano una galassia politica in grado di movimentare una massa smisurata di denaro. Negli ultimi anni le fondazioni hanno sostituito i partiti nella raccolta dei finanziamenti in quanto, trattandosi di enti privati, non avrebbero gli obblighi di trasparenza che incombono sui partiti. Questo è quanto si continua a leggere sulla stampa italiana: in realtà, le cose non stanno così. Infatti, prima con il disegno di legge c.d. “spazzacorrotti” e, successivamente, con il “decreto crescita” del giugno 2019, è stata introdotta, anche per le fondazioni, una serie di obblighi (obbligo di pubblicare bilancio, statuto ed elenco dei donatori) che vengono tuttora disattesi a causa della impossibilità della Commissione di garanzia di sanzionarne il mancato adempimento. La Commissione di garanzia, ricordiamolo, si compone di 5 membri, di cui uno viene designato dal primo presidente della Corte di cassazione, uno dal presidente del Consiglio di stato e tre dal presidente della Corte dei conti. Le carenze nell'organico e, soprattutto, la mancanza di una vera e propria autonomia patrimoniale, hanno finito per svilire in modo significativo il ruolo di vigilanza che la Commissione avrebbe dovuto svolgere su partiti e fondazioni. Basterebbe ricordare che, nel 2014, cioè due anni dopo il loro insediamento, i componenti della prima commissione decisero in blocco di rassegnare le dimissioni per protestare contro la mancanza di risorse. Una ricerca di Openpolis del 2018 ha dimostrato che esistono nel paese 120 fondazioni che gravitano attorno all'universo della politica italiana all'interno del quale sembra scomparire qualunque distinzione tra destra e sinistra. I dati di questa ricerca dimostrano che oltre l’80% delle strutture (fondazioni e think tank) non pubblica il proprio bilancio e che solo nel 45% dei casi risulta consultabile lo statuto. L'elenco dei donatori risulta, perfino, grottesco: solo il 3% delle strutture pubblica i nominativi dei soggetti a cui sono da ricondurre le generose elargizioni le quali, curiosamente, risultano, talora, spalmate anche in diverse fondazioni, perfino di area diversa. Come si vede, siamo davanti ad uno scenario che ci conduce all'amara constatazione di un paese che non ha alcun interesse a dare di sé un'immagine diversa da quella che, da decenni, i nostri partner europei seguitano a coltivare nei nostri confronti. La nostra democrazia è profondamente malata perché, come dimostrano i dati che abbiamo citato, sono profondamente malate le sue élite politiche, economiche ed istituzionali le quali, attraverso il loro esempio aberrante, hanno finito per assurgere a modello di comportamento collettivo. Come ha scritto Carlo Carboni in una bella riflessione di qualche anno fa, si è diffusa nel paese una sorta di ignavia di massa che ha creato “una società cinica come la sua élite: stessa faccia, stessa razza”. Se fossimo un paese normale, davanti alla inquietante opacità delle modalità di finanziamento del sistema politico, un cittadino virtuoso e animato da un forte senso delle istituzioni, dovrebbe rivoltarsi sdegnosamente. Di contro, oggi più che mai, il paese assiste con indifferenza a quel “mostruoso connubio” tra politica, imprenditoria e professioni che continua a vedere nello spazio pubblico l'occasione per fare denari con un cinismo scellerato e, talora, perfino disumano: “topi sul formaggio”, come scrisse Paolo Sylos Labini 40 anni fa. Clientelismo, corruzione ed evasione fiscale sono diventate una patologia sociale che rispecchia perfettamente il volto di una classe dirigente inguaribilmente incline al malaffare, che, con la complicità della politica, è diventata un alibi collettivo che legittima ogni illecito e ogni devianza, piccola e grande. Come diceva Montanelli, “i nostri politici non fanno che chiederci a ogni scadenza un atto di fiducia. Ma qui la fiducia non basta: ci vuole l'atto di fede”. Quindi, non ci resta che pregare.
Editoriale apparso su la Provincia di lunedì 2 dicembre 2019