L’11 luglio 1995 le milizie serbe entrarono nella città bosniaca di Srebrenica sotto gli occhi dei caschi blu. In soli sette giorni, i serbi di Mladic uccisero 8.346 persone.
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Emir Suljagic era un ragazzo l’11 luglio 1995, quando le milizie serbe entrarono nella città bosniaca di Srebrenica sotto gli occhi dei caschi blu. Nell’indifferenza del mondo, in sette giorni i serbi di Mladic uccisero 8346 persone. Emir si salvò grazie al suo ruolo di interprete delle Nazioni Unite ed oggi racconta in un libro ("Cartolina dalla fossa", ediz. Biet) l’orrore di quei giorni. Ciò che lascia esterrefatti è l’incomprensibile indifferenza e apatia delle opinioni pubbliche europee. Durante la guerra in Bosnia, anche nel nostro paese non ci fu una sola manifestazione. La comunità internazionale, che su Auschwitz ha sempre dichiarato di “non sapere”, su Srebrenica era sul posto, sapeva, assisteva inerte allo sterminio e brindava anche con i macellai. A Srebrenica furono massacrati uomini di ogni età. Le donne e i bambini, invece, furono cacciati e condannati ad essere braccati nei boschi in una infinita fuga dall'orrore. “Fummo ricacciati in una società primordiale, priva di leggi” scrive Suljagic. Le salde certezze che appartengono ad ogni uomo furono spazzate via per sempre. Anche da questo nasce l’incapacità nei sopravvissuti di tornare ad una vita “normale”, in quanto condannati ad una vita emozionale frenata, mutilata (nelle parole di Suljagic, “tutti i sentimenti sono incompleti…. per qualche motivo solo là, tra i ricordi, tra le ombre, mi sento meglio”). Il quindicesimo anniversario della strage di Srebrenica è coinciso con il giorno della finale dei Mondiali di calcio. Le associazioni delle vittime avevano chiesto un minuto di silenzio ma la Fifa, per bocca del suo segretario, Jerome Valcke, ha risposto che non si poteva. La finale mondiale non poteva essere turbata da simili ricordi.