Nel libro “La teoria del tutto raccontata da te”, Igor Sibaldi parla di “logopenìa” in riferimento ad alcune lingue che ne soffrono, lingue che non riescono ad arrestare la diminuzione del loro vocabolario attivo, ossia del numero di vocaboli utilizzati dalla maggioranza di coloro che la parlano. L’autore afferma inoltre che l’italiano è in condizioni gravi dato che il vocabolario attivo degli italiani di media cultura non supera i settemila vocaboli, contro uno di trentamila degli inglesi.
--------------------
Nel libro “La teoria del tutto raccontata da te”, Igor Sibaldi parla di “logopenìa” in riferimento ad alcune lingue che ne soffrono, lingue che non riescono ad arrestare la diminuzione del loro vocabolario attivo, ossia del numero di vocaboli utilizzati dalla maggioranza di coloro che la parlano.
L’autore afferma inoltre che l’italiano è in condizioni gravi dato che il vocabolario attivo degli italiani di media cultura non supera i settemila vocaboli, contro uno di trentamila degli inglesi.
Non sappiamo se tale statistica rappresenti la situazione reale, ma in questo aspetto rileviamo un paradosso dal momento che proprio l’inglese ha preso “a prestito” una grande quantità di vocaboli da altre lingue ed in particolare dall’italiano.
L’autore continua dicendo che “questa povertà dell’italiano lo accomuna ad altre lingue neolatine”.
Scrive poi quanto segue.
Prendiamo ad esempio la brutta parola “lavoro”, che deriva dal latino labor, ossia “fatica”, “pena”, “sventura”. Anche travail, in francese, e trabajo, in spagnolo, sono brutte parole: derivano dal latino trabalium, “tormento”. “Lavoro”, travail, trabajo corrispondono all’inglese job e labour e al tedesco Arbeit. Ma in più, per indicare ciò che ognuno pensa riguardo al lavoro, l’inglese ha work e il tedesco ha Werk, che indicano un nobile impegno, un’attività fruttuosa a cui ci si dedica volentieri, come opus in latino (ossia, “opera”). Né l’italiano, né il francese, né lo spagnolo hanno un equivalente di work o di Werk. Italiani, francesi, spagnoli possono dunque scegliere solo tra la fatica e l’ozio. Inglesi e tedeschi hanno un’opzione in più: il work-Werk. Certo, italiani, francesi e spagnoli possono parlare di “lavoro”, di travail, di trabajo come se parlassero di work o Werk. E’ l’unica loro possibilità, per non sentirsi schiavi. Devono solo sperare che chi l’ascolta capisca che a volte dicendo “lavoro”, travail, trabajo, non dicono affatto “lavoro”, travail, trabajo. Il che non capita facilmente.
Possiamo aggiungere che nel periodo storico in cui viviamo il lavoro è effettivamente percepito da molti come una pena, come un castigo.
Un tempo chi non lavorava era un “lavativo” un “lazzarone” e non era proprio una bella condizione, mentre oggi la situazione appare ribaltata.
Dovremmo fare invece una virata e tornare al concetto di lavoro come attività nobile per migliorare la propria condizione e quella della propria famiglia, per realizzare noi stessi e gratificarci per l’opera che svolgiamo.
Forse si è persa l’etica del lavoro, portando molti a pensare che hanno diritto ad avere senza dare nulla in cambio (il reddito di cittadinanza vi dice qualcosa ?).
Potremmo essere noi neolatini (italiani, francesi e spagnoli) avvantaggiati in un miglioramento della nostra condizione adottando una nuova parola che definisca il lavoro, come work e Werk, non come un travaglio o come una pena, ma come un’opera nobile per contribuire al miglioramento di noi stessi e del mondo in cui viviamo ?