La crisi ha modificato in profondità l'identità collettiva di un paese che guarda al futuro con disincanto e amarezza. In passato ignoravamo cosa fosse l'invidia sociale e perfino la classe politica poteva godersi i suoi privilegi nell'indifferenza generale. Oggi, il sentimento dominante sembra essere il risentimento e, al posto della solidarietà per i più deboli, ha avuto il sopravvento quella che i tedeschi chiamano “Schadenfreude”, cioé la gioia per le disgrazie altrui: davanti al naufragio e alla morte di tanti naufraghi, non proviamo alcuna vergogna nell'avvertire sollievo.
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Negli ultimi giorni l'ascesa dello spread ha spinto molti commentatori a paventare il rischio di una nuova recessione che risulterebbe drammatica per il nostro paese. Sarebbe utile rammentare che anche quando, due anni fa, la nostra economia ha ripreso fiato, secondo l'Istat una larga parte della popolazione italiana non aveva avuto alcuna percezione della ripresa economica. Lo scetticismo del cittadino risultava comprensibile dato che, come i fatti hanno poi dimostrato, i profitti prodotti dalla ripresa non si sono tradotti in aumenti salariali in nessuno dei comparti in cui era avvenuta l'inversione del ciclo. Dieci anni di recessione hanno ridotto allo stremo la società italiana nella quale esistono zone d'ombra, al riparo dal fisco, che vengono tollerate in quanto comunque produttive di reddito. Piaccia o no, occorre ammettere che l'economia sommersa rappresenta una sorta di ammortizzatore sociale che ha contribuito a placare la rabbia di molte categorie che, in modo variegato, sono presenti in ogni zona del paese e in tutti i settori produttivi. La crisi che ha investito la nostra società impone una seria riflessione sulle conseguenze che, in modo dirompente, ha innescato nel sistema. Stiamo assistendo alla progressiva erosione del tessuto sociale che rischia di mettere a repentaglio quel po' di coesione che avevamo faticosamente costruito in settant' anni di Repubblica. Il cittadino ha smarrito ogni certezza e continua ad avvertire un senso di precarietà che genera il terrore di una povertà incombente. Inutile nasconderlo, la crisi ha modificato in profondità l'identità collettiva di un paese che guarda al futuro con disincanto e amarezza. In passato ignoravamo cosa fosse l'invidia sociale e perfino la classe politica poteva godersi i suoi privilegi nell'indifferenza generale. Oggi, il sentimento dominante sembra essere il risentimento e, al posto della solidarietà per i più deboli, ha avuto il sopravvento quella che i tedeschi chiamano “Schadenfreude”, cioé la gioia per le disgrazie altrui: davanti al naufragio e alla morte di tanti disperati, non proviamo alcuna vergogna nell'avvertire sollievo. Questo interminabile decennio di crisi ha determinato un impoverimento di massa che non ha precedenti nella storia del nostro paese. La lenta e inesorabile “proletarizzazione” dei ceti medi, preconizzata da Marx, rappresenta un dato storicamente inedito davanti al quale la politica seguita a denotare una disarmante impotenza, come dimostra la campagna elettorale in corso che rivela l'assoluta incapacità della classe politica di fornire una soluzione plausibile ai problemi che attanagliano la nostra economia. In questo modo, si rischia di aggravare la faglia tra politica e società civile che risulta pericolosa per le stesse sorti della democrazia che, alla lunga, potrebbe non reggere la pressione di una disgregazione sociale sempre più rabbiosa. Il fenomeno del “fascismo strisciante”, di cui si é discusso in queste ultime settimane, dovrebbe preoccupare tutti i partiti perché rappresenta il sintomo di una disperazione che non intende più fidarsi della politica. Non possiamo più fingere di ignorare che nella nostra società ci sono aree eversive, storicamente ostili alla democrazia repubblicana, nelle quali è sempre stata forte la tentazione di spingere il paese verso un approdo autoritario. Oggi quelle aree rischiano di saldarsi con tutti quei pezzi di società civile che non credono più a nulla: non credono nelle istituzioni, non credono nei partiti e tanto meno in un'Europa che non ha fatto nulla per difenderli davanti allo tsunami della globalizzazione. Tutto ciò costituisce linfa vitale per il populismo che, per usare una celebre espressione di Talleyrand, vanta “l'abilità di agitare il popolo prima dell'uso”. Siamo ignari protagonisti di una svolta epocale di cui, allo stato, non si intravedono gli esiti. Per decenni, abbiamo ritenuto la democrazia liberale un dato acquisito e, come tale, immutabile: evidentemente non era così. Ripartiamo da questa verità se vogliamo ancora ridarle un senso.
Editoriale apparso su La Provincia del 20 maggio 2019