Il presente articolo è apparso su La Provincia (quotidiano di Como-Lecco-Sondrio-Varese) lo scorso novembre quando la stampa italiana studiava il fenomeno Mourinho tessendone le lodi. A distanza di quattro mesi, dopo tante sortite polemiche senza senso e dopo l'eliminazione dalla Champions, il clima attorno a Special One è decisamente cambiato. Ecco perchè, fin dal suo esordio, il Mou non ci convinceva.
Fenomenologia di Jose’ Mourinho, allenatore dell’Inter, sbarcato la scorsa estate in Italia con il roboante appellativo di “Special One”. Nella storia del calcio italiano non si era mai assistito a tanto clamore attorno all’arrivo di un allenatore. Le tifoserie hanno sempre sbavato per gli attaccanti, per i grandi fantasisti, talora per i difensori. A memoria, non ricordiamo di aver mai letto panegirici estivi per l’arrivo di un nuovo tecnico. Infatti, fino a qualche mese fa, la precettistica dominante si fondava sull’assioma “si vince solo se si hanno i campioni”. Il clangore della stampa attorno alla figura di Mourinho ha scompaginato questa convinzione comune: si vince solo se in panchina c’è un uomo vincente. La squadra, i giocatori, vengono dopo. Onestamente, abbiamo sempre ascoltato queste teorie con occhiuta circospezione. Come diceva Brera, il calcio resta un mistero agonistico, un mistero che fonda il proprio fascino arcano nella bellezza di un gol o di un gesto tecnico dei calciatori che restano sempre e comunque i veri protagonisti. Anche per questo non ci piaceva lo spocchioso scientismo di Sacchi il quale, va detto, dimostrava un grande acume ed una profonda conoscenza del calcio italiano. Maniacale, rigoroso fino al furore autistico, Arrigo Sacchi si inseriva comunque nel solco del calcio italiano. Il Milan squadra stellare si fondava sull’astuzia tattica di un pressing demoniaco finalizzato ad intercettare e a dare immediata profondità alla manovra. Il tecnico rossonero parlava pudicamente di ripartenze ma si trattava soltanto di un espediente dialettico che gli consentiva di evitare di dire “contropiede”, il vecchio contropiede che rappresentava il calcio all’italiana, tanto vituperato quanto scimmiottato dal mondo intero (la Germania mondiale e, oggi, le squadre inglesi, Chelsea, Liverpool e Manchester). Sacchi è stato un vero rivoluzionario del costume italiano ma non della tattica. Ha cambiato la mentalità del calcio ma il Milan era soprattutto una squadra di campioni con l’additivo di una fiducia nei propri mezzi del tutto inusitata per una squadra italiana. Al suo arrivo al Milan, a chi gli domandava cosa potesse dare un allenatore che non ha mai giocato al calcio, Sacchi silenziò la platea con una battuta folgorante: “per essere un bravo fante non c’è bisogno di essere stato cavallo”. Era vero, ma lui era un fante fortunato perché aveva i cavalli più bravi. Parlando di Mourinho, torna spontaneo il raffronto con Sacchi. Entrambi hanno un Io talmente ipertrofico da credere che l’interlocutore non sia in grado di capire il loro sommo pensiero. “Non sono un pirla”, ha esclamato il tecnico portoghese nella prima conferenza stampa, utilizzando una battuta sapientemente preparata. Entrambi sentono di rappresentare il Verbo. Come Sacchi, Mourinho è prodigo di elogi per gli allenatori avversari, visti sempre come “minus habens” meritevoli di incoraggiamento. Entrambi hanno una fede inconcussa nelle proprie convinzioni. “Il calcio italiano non mi cambierà” ha sibilato fiero dopo i primi rovesci della squadra nerazzurra. Hanno studiato entrambi ma entrambi ignorano protervamente la dialettica hegeliana (tesi, antitesi, sintesi): infatti, Sacchi e Mourinho sono due feroci dogmatici che non tollerano il beneficio del dubbio che per entrambi è sinonimo di debolezza. A differenza di Sacchi, però, Mourinho, non ha un presidente come Berlusconi che potrà proteggerlo dai marosi della stampa che si abbattono dopo ogni disfatta. Scusate se è poco. Se conosciamo bene Moratti, è facile immaginarlo perplesso. Malum Signum. Pochi mesi dopo aver infervorato il popolo nerazzurro, Special One annaspa nervosamente. Cambia sempre formazione, litiga con la stampa, con i suoi colleghi, con i suoi giocatori, financo con le sue idee, che appaiono sempre più incerte e confuse. Arrivato come grande vincente, è facile prevedere che “Mou” partirà dall’Italia come grande perdente, schiacciato dalla sua goffa pretesa di insegnare agli italiani il calcio all’italiana. Caro Presidente, anche stavolta l’ha fatta davvero grossa!