Le grandezze reali della nostra economia denunciano un costante arretramento. Occorre ammettere che il governo dei tecnici, salutato dalla grande stampa come l'unico esecutivo in grado di risollevare le sorti della nostra economia, ha disatteso profondamente le aspettative degli italiani a causa della pervicace convinzione che il rigore fosse l'unica strada possibile per poter ridare slancio al paese.
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Negli ultimi giorni Mario Monti non ha resistito alla tentazione di esternare il proprio entusiasmo per l'andamento favorevole dello spread. Va detto, purtroppo, che la notizia non è servita a scaldare gli animi del Paese che appare sempre più sfiduciato a causa del prolungarsi di una congiuntura di cui tuttora non si scorgono gli esiti. Le grandezze reali della nostra economia denunciano un costante arretramento e, ciò malgrado, l'esecutivo seguita a baloccarsi nell'illusione che dall'austerità possa sortire quella riduzione del rapporto deficit/Pil necessaria per una ripresa duratura dell'economia. Occorre ammettere, senza infingimenti, che il governo dei tecnici, salutato dalla grande stampa come l'unico esecutivo in grado di risollevare le sorti della nostra economia, ha disatteso profondamente le aspettative degli italiani a causa della pervicace convinzione che il rigore fosse l'unica strada possibile per poter ridare slancio al paese. Il governo ha fallito la sua missione non solo per i vincoli di bilancio imposti dall'Ue ma, soprattutto, per una sorta di vizio ideologico secondo cui il debito pubblico andrebbe abbattuto in pochi anni malgrado sia stato generato in svariati decenni. Niente di più folle. Il governo Monti ha voluto far credere all'opinione pubblica che la più grande recessione nella storia dell'Occidente potesse essere debellata attraverso un aumento della pressione fiscale e un drastico ridimensionamento della spesa pubblica. In realtà, praticare il rigore in piena tempesta recessiva finisce per ingenerare la convinzione che il nostro "governo dei professori" viva una proria dimensione, eterea e fuori dal mondo. Risulta, infatti, delittuoso fingere di ignorare la cronica fragilità del nostro sistema produttivo. Se il governo si calasse nella realtà che vivono quotidianamente le nostre aziende, capirebbe che gran parte del tessuto produttivo del paese si compone di piccole imprese che vivono agganciati alla domanda interna, che non possono ricorrere agli ammortizzatori sociali e che hanno una carenza di liquidità che il sistema bancario, spesso rapace e vessatorio, non aiuta certamente a risolvere. L'aumento della pressione fiscale ha costretto un cospicuo numero di unità produttive ad estinguersi o, nella migliore delle ipotesi, ad inabissarsi. Risultato: aumento della disoccupazione, ulteriore calo della domanda e lotta sempre più rabbiosa all'evasione fiscale. Più che un obiettivo, la crescita sta acquistando sempre più le sembianze di un miraggio. Come ha rilevato l'Ufficio Studi di Mediobanca, la riduzione della domanda e, contestualmente, l'aumento dei rendimenti dei titoli di Stato, rappresentano un fattore che finisce per accentuare la propensione a disinvestire. Questo alimenta fatalmente la tendenza alla "finanziarizzazione" della nostra economia che, di fatto, significa volatilità dei capitali e ulteriore impoverimento del paese. Occorre ammettere che, dopo un anno di governo tecnico, gli indicatori non depongono a favore del premier il cui stile “british”, utile a riaccreditare l'immagine internazionale del nostro paese, non aiuta a creare quella coesione sociale di cui il Paese ha bisogno. Il governo dei tecnici doveva essere una parentesi: la si chiuda al più presto se la democrazia ha ancora un senso.