I primi anni ’70 hanno annichilito la spinta delle vecchie coordinate politiche, centrifugato le ideologie e pervertito le utopiche visioni giovanili. Leonardo Sciascia nel 1974 pubblica il romanzo geometrico-cartesiano “Todo Modo”, due anni dopo Elio Petri realizza il film omonimo: il De Profundis per un’intera classe politica e dirigente. Il 30 Aprile 1976 Aldo Moro rassegna le dimissioni da Presidente del Consiglio, mentre all’Embassy di Roma e all’Apollo di Milano il pubblico assiste alle prime proiezioni di Todo Modo. Il film presenta una caricatura grottesca dello statista democristiano resa superbamente da Gian Maria Volonté.
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Il biennio 1974-76 è decisivo per delineare la figura cinematografica di Aldo Moro. Le premesse sono: il fallimento dell’esperienza governativa di centro-destra DC-PLI a guida Giulio Andreotti che riporta sulla scena, per la quinta e ultima volta, il leader democristiano all’alba del 1973; la sconfitta del “SI” nel referendum sul divorzio del 12/13 Maggio 1974 e la debacle alle regionali del 15/16 Giugno 1975 (DC: 35%; PCI: 33%; l’intera area di sinistra al 46%). Aldo Moro viene richiamato d’urgenza nell’agone politico per affrontare le “temibili” politiche del 1976 (con lo spauracchio del sorpasso a sinistra). L’unica strada percorribile dalla DC per poter sopravvivere è dare l’impressione gattopardesca “che tutto cambi senza che nulla cambi”; l’uomo incaricato di guidare la traversata mimetica è Aldo Moro (“La peculiarità della situazione italiana impone alla DC di essere alternativa di sè stessa”). I primi anni ’70 hanno annichilito la spinta delle vecchie coordinate politiche, centrifugato le ideologie e pervertito le utopiche visioni giovanili. Leonardo Sciascia nel 1974 pubblica il romanzo geometrico-cartesiano “Todo Modo”, due anni dopo Elio Petri realizza il film omonimo: il De Profundis per un’intera classe politica e dirigente. Il 30 Aprile 1976 Aldo Moro rassegna le dimissioni da Presidente del Consiglio, mentre all’Embassy di Roma e all’Apollo di Milano il pubblico assiste alle prime proiezioni di Todo Modo. Il film presenta una caricatura grottesca dello statista democristiano resa superbamente da Gian Maria Volonté. Scrive Petri: “Quando girammo Todo Modo, Volonté divenne evanescente, camminava come se fosse sulle nuvole, parlava a bassa voce, non ti guardava negli occhi, tutto preso com’era dal personaggio di Moro […] La somiglianza di Gian Maria con Moro era nauseante, imbarazzante, prendeva alla bocca dello stomaco”. Il Moro di Todo Modo è una maschera, sintesi dell’intera filosofia del potere democristiano: si muove circospetto, lo sguardo perennemente estatico, affettato ed ambiguo nelle relazioni, prega secondo i dettami della “preghiera sospirata” di Sant’ Ignazio di Loyola, soffre e concupisce la moglie con slanci di osceno erotismo per poi sistemare metodicamente ogni tassello al suo posto; blandisce e ipnotizza la platea dell’uditorio e si lascia sorprendere da improvvisi e violentissimi scatti d’ira. Non è “il Presidente” bensì l’incarnazione carnevalesca di un intero partito votato all’esercizio del potere attraverso una ritualità religiosa che vive, si rafforza e penetra nella società attraverso il segreto, il mistero e l’indicibile. Leonardo Sciascia, a proposito del suo libro, il 23 marzo 1978 così si esprime a Radio Radicale: “Come uomo, come cittadino di fronte al caso Moro sento lo sgomento e la pena di qualsiasi persona che abbia sentimento e ragione. Ma come autore di Todo Modo, rivedo nella realtà una specie di proiezione delle cose da me immaginate”. Il film di Petri prefigura la morte di Aldo Moro, il quale paga di persona – proprio come accadrà nella storia – per le colpe di un intero sistema politico al punto che il regista, due anni dopo, deve difendersi dall’accusa infamante di essere il “mandante morale” dell’omicidio dello statista democristiano.
L’Aldo Moro caricaturale e brechtiano di Todo Modo, dieci anni dopo, lascia il posto all’uomo, al nonno, al padre di famiglia, al marito fedele e innamorato; al ritratto (in copia conforme) umano, dolente, riflessivo, scettico, disorientato, illuminista de Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara ispirato al libro “I giorni dell’ira” di Robert Katz. E’ ancora Gian Maria Volonté ad interpretarlo - questa volta secondo il metodo Stanislawskij – mettendo in scena l’abbandono e la solitudine progressiva e insostenibile che si susseguono nei 55 giorni del sequestro. Giorni di tragedia umana in cui, lentamente e inesorabilmente, nella mente e nel cuore dello statista democristiano prende corpo lo spettro della morte che si avvicina. Una morte né scelta da lui né preventivata dalle Brigate Rosse ma indotta da un sistema/complotto matematico ordito ai suoi danni. L’Italia del film è un contesto astratto, ridicolo e disumanizzato che scatena in Moro una rabbia sommessa, trattenuta a stento, che si mescola con la vergogna e con un sottile e insinuante spirito di vendetta espressi al meglio dalle sue parole rivolte a Mario Moretti nel momento dell’ascolto della sentenza di morte: “Quello che non riuscirò mai a perdonare agli uomini del mio partito è di non aver sentito la mia persona come presenza viva della Democrazia Cristiana, pur sapendo della mia fedeltà. Perché io non ho mai tradito; anche nella circostanza estrema in cui mi trovo. Non riesco ad accettare che il potere che io oggi perdo – non solo viene trasmesso ed, avvedutamente, ereditato da coloro che oggi ratificano la mia condanna a morte – ma viene, soprattutto, svuotato di quella ragione, di quella finalità umana, di quella idealità senza le quali, il potere è solamente atroce”. Parole che spiegano al meglio l’affermazione del figlio Giovanni Moro: “Le lettere di mio padre devono essere lette anche sotto il genere letterario della profezia”, evidenziando come l’epistolario della prigionia – sottoposto a vari livelli di censura, redatto e (probabilmente) manipolato da più livelli intermedi (oltre a quello dei brigatisti) – vada interpretato come analisi lucida, sincera e spietata del potere italiano. Le lettere di Aldo Moro – di cui il film di Ferrara dà ampia e circostanziata documentazione – risultano rivelatrici dell’anima più infida e perversa della Democrazia Cristiana intesa come entità partitica, la quale - rinunciando alla propria prerogativa di sospendere la legalità (trattare con le BR) di fronte ad un obbligo politico, morale e umano (salvare la vita di Aldo Moro e non dell’On Aldo Moro) – non solo rinuncia alla sua sovranità ma abdica dalla componente Cristiana (sbandierata nel nome) condannandosi ad una lenta e progressiva autodistruzione per consunzione interna, la stessa prefigurata da Moro: “Per quel che ne so gli uomini della DC prestano infinitamente più attenzione alla sorte di meschine consorterie interne; tutti protesi all’indefessa ricerca di colpevolezze, manchevolezze dei propri nemici”.
L’uomo Aldo Moro lascia posto al suo “doppio” fantasmatico in Buongiorno notte (2003) di Marco Bellocchio. Roberto Herlitzka – con l’evasione finale – dà corpo e consistenza al sogno (lo stesso che fu di milioni di italiani nel 1978) immergendosi nel memoriale di Anna Laura Braghetti “Il prigioniero” su cui il film è costruito. In Buongiorno notte Aldo Moro è il controcampo del mondo opprimente, claustrofobico, intimo e solipsistico dei carcerieri: Mario Moretti, Prospero Gallinari, Germano Maccari e Anna Laura Braghetti (tutti, opportunamente, reinventati cinematograficamente). Aldo Moro è un corpo estraneo eppure (quasi) paterno con giovani terroristi accecati da un’ideologia criminale, velleitaria e distruttiva che sembrano non rendersi conto – o meglio, si interrogano, cercano di capire – chi è colui che è chiuso nella “prigione del popolo”. A Bellocchio non interessa la Storia (quella la restituisce il contesto attraverso le ossessive immagini dei telegiornali e delle trasmissione televisive dell’epoca), ma mettere in scena l’”enigma Aldo Moro” al cospetto dei suoi aguzzini i quali spiano, osservano, origliano dietro la porta della prigione; incuneano i loro sguardi negli spiragli di luce, nelle fessure che permettono di intravedere e incrociano, con imbarazzo e reticenza, lo sguardo dello statista. Bellocchio sfugge la realtà fenomenologica per concentrarsi sul desiderio: Aldo Moro che – in un passaggio di raro lirismo poetico ed evocativo – esce dall’appartamento di Via Montalcini e si allontana per le vie di Roma. Il “sogno impossibile”, sottolineato dalle note Momento Musicale di Schubert, è quello di una ragazza ventitreenne che si interroga sulla sua umanità, che (a parole) si ribella alla causa Brigatista e che si abbandona alla prospettiva di un mondo diverso da quello che la circonda. Il fantasma di Aldo Moro genera la pietas, la commozione, il rapporto tra il dolore inflitto e quello subito, mentre l’uomo Aldo Moro bendato e sofferente compie i suoi primi passi verso il luogo designato: lo aspettano 12 colpi di una mitraglietta Skorpion e il bagagliaio di una R4 rossa targata Roma N57686. Via Caetani: 9 Maggio 1978.
Fabrizio Fogliato – Critico cinematografico e Storico del Cinema
Pubblicato su L’ORDINE – La Provincia 06-05-2018