Il crollo di Wall Street induce ad amare riflessioni sulla vera natura del capitalismo finanziario, figlio degenere del capitalismo, abitato da rapaci speculatori la cui unica morale è quella di non averne.
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Il crack finanziario della banca statunitense Lehman Brothers ci costringe a prendere atto che il capitalismo finanziario non ha nulla a che vedere con la nobile nozione di capitalismo che tutti abbiamo coltivato per decenni con soave candore. Si è trattato del tonfo di un’economia virtuale che per anni si è alimentata della illusoria certezza che fosse possibile lucrare all’infinito facili guadagni attraverso la creazione di obbligazioni costituite da un’artificiosa commistione di titoli prestigiosi e di junk bonds, cioè, di titoli spazzatura. Questa volta non è successo che “la moneta buona scaccia quella cattiva” perché i pacchetti abilmente confezionati dai satrapi della grande finanza hanno finito per creare una bolla risultata letale per il sistema. In sostanza, è stato costruito un castello di carta che ha attratto il risparmio di milioni di cittadini al punto che il mercato di questi titoli risulta pari a 10 volte il Pil mondiale. Vediamo come sia potuto accadere una simile follia. Il sistema bancario americano, senza richiedere adeguate garanzie, accordava mutui ai cittadini per l’acquisto della casa il cui importo era pari all’intero valore dell’immobile. L’impostura consiste nell’aver traslato sui terzi il rischio della mancata solvibilità della clientela. Infatti gli istituti di credito inserivano questi mutui in pacchetti obbligazionari che venivano successivamente venduti ad altri investitori. In tal modo, con il corrispettivo di tali cessioni, il sistema bancario poteva originare ulteriori prestiti. La bolla immobiliare è scoppiata allorquando un notevole numero di cittadini si è visto impossibilitato a rimborsare i prestiti ricevuti. Ecco, allora, che le obbligazioni contenenti i mutui inevasi sono diventate “tossiche” fino al punto da inquinare irreparabilmente i mercati finanziari. Sono in tanti, ora, a paventare che la recessione mondiale si trasformi in una depressione simile a quella del 1929 che decretò il definitivo fallimento delle teorie liberiste ed il trionfo del keynesismo da cui ebbe origine il moderno Stato sociale (o Welfare state). Questo modello ha dominato il pensiero teorico e la prassi economica degli Stati fino all’arrivo di Reagan e della cosiddetta Reaganeconomics che si fondava sulle privatizzazioni, sul dogma del mercato e su una spietata visione liberista dell’economia che, da quel momento in poi, è diventata sempre più insofferente di vincoli e norme (deregulation). Come nel 1929, anche oggi sono in tanti ad invocare un rilancio delle politiche keynesiane e la cosa curiosa sta nel fatto che a caldeggiarne un immediato ritorno sono gli stessi che per anni hanno osteggiato ogni forma di controllo pubblico dei mercati. Dobbiamo diffidare di costoro. Da tempo immemorabile la finanza mondiale suole invocare l’intervento pubblico solo per ammortizzare il costo di qualche bancarotta. Si tratta di un trucco vecchio come il cucco: collettivizzare le perdite per poi privatizzare i profitti. Non si può, tuttavia, pensare che il sistema capitalistico possa ridursi ad un capitalismo finanziario senza regole. La crisi americana ci insegna che occorre promuovere la costituzione di un sistema di controllo globale che, in modo circolare, possa consentire agli Stati di esercitare una effettiva vigilanza sui meccanismi di regolazione dei mercati. Tutti, oggi, sono disposti ad ammettere che il sistema americano paga la carenza di controlli da parte degli organi di vigilanza. Questa carenza affonda le radici nella cultura, tipicamente americana, di riporre una fideistica fiducia nei mercati e nella capacità del sistema finanziario di autoregolarsi. Questa crisi ripropone il sempiterno dilemma delle democrazie: quis custodet custodes, chi controlla i controllori? Questo è il vero problema, un problema che non si potrà mai risolvere fino a quando il cittadino resterà alla mercè di spietate oligarchie per le quali la democrazia resta soltanto una ghiotta opportunità per facili arricchimenti.