Una riflessione appassionata e provocatoria sul crocifisso nelle aule scolastiche. Uno spunto per dibattere un tema controverso in modo autenticamente laico, scevro, cioè, da pregiudizi ideologici e religiosi.
Negli anni ottanta Natalia Ginzburg, deputato e intellettuale del PCI, dalle colonne de L’Unità tesseva un’appassionata difesa del crocifisso all’interno delle aule scolastiche: una riflessione limpida e di grande profondità che mantiene intatta la sua straordinaria attualità.
A distanza di vent’anni da quelle parole, ancora oggi tale vicenda rappresenta per certuni motivo di disagio. Non è mia intenzione disquisire della nota sentenza emessa dalla Corte di Giustizia Europea: ritengo del tutto ozioso (dato che non sono un giurista) ogni tentativo di districarsi in quel labirinto di sentenze e citazioni che rimandano ad autorità costituite che dovrebbero essere a servizio dell’uomo ma che rischiano di farlo diventare schiavo del sabato (cfr. Mc 2,27).
Probabilmente, se nel segreto delle nostre stanze (e non nelle aule istituzionali e nei dibattiti televisivi) avessimo tentato di parlare un po’ con l’unico Protagonista della vicenda, avremmo ricevuto risposte sorprendenti. Ci saremmo messi seduti e lo avremmo ascoltato. Mi piace pensare che avrebbe parlato un linguaggio lontano anni luce dal politichese, questo strano, quasi esoterico, idioletto, spesso abusato e sulla bocca di tutti, sovente utilizzato per non dire nulla dando la sensazione di aver detto qualcosa. Forse ci avrebbe detto lui stesso che, sul muro di una classe dove nessuno lo vuole, non ci vorrebbe più stare: lo lascia libero, così da offrire uno spazio completamente vuoto, vuoto esattamente come rischia di essere il cuore degli evoluti e laici abitanti d’Europa.
La croce è un simbolo: affermazione assolutamente vera ma anche onusta di infiniti significati che sfuggono all’attenzione di chiunque. Se riteniamo che essa ci rappresenti, dobbiamo farci carico dei messaggi di cui è portatrice e che farebbero tremare la nostra civiltà che vorrebbe nuovamente cucirsela sugli abiti di moderni crociati.
Il Golgota, la collina sulla quale è stata issata LA Croce, era fuori dalla mura di Gerusalemme, fuori dalla città, perché coloro che venivano appesi non erano graditi: la loro morte rappresentava per la comunità una vera e propria liberazione. Le braccia spalancate appartengono a un uomo che, al culmine della sua sofferenza, nel momento supremo del dolore, ha avuto ancora una volta un pensiero per l’umanità che lo ha condannato a morte e alla quale ha affidato sua Madre (Gv 19,27).
L’Uomo dei Dolori, calpestando le terre di Palestina, ha esortato l’accoglienza dello straniero, ha tuonato con incredibile forza infliggendo condanna eterna a coloro che non Lo hanno riconosciuto nel piccolo che chiedeva pane e ospitalità (Mt 25,45). Ora, duemila anni dopo, i farisei del Duemila, che conoscono a memoria i Vangeli, chiedono che il crocifisso non venga toccato dalla aule e nello stesso tempo respingono tante volte quei piccoli che chiedono un pane, un po’ d’acqua o dei vestiti. Ma questo non ci scandalizza: la storia è piena di donne incinte che vengono respinte perché non c’è posto per loro; accade oggi, quando decine di eritree, somale, irachene con una nuova vita nel grembo vengono rimandate indietro perché nella nostra Italia non c’è posto. Accadde ieri, quando ad essere mandate indietro erano le donne italiane, respinte ai confini del Nuovo Mondo. E’ accaduto un tempo, a una donna di Palestina a cui hanno negato un giaciglio che avrebbe permesso una nascita più dignitosa a Colui che è il Re dei Re: quello stesso re che su una croce oggi è tanto difeso da una generazione che continua ad adorarlo con le parole, mentre i cuori sono lontani (Is,29-13).
La croce intanto, per chi l’accoglie, rimane lì: con un Dio profondamente innamorato di ogni singolo uomo, che non si è mai imposto e non ha mai costretto l’uomo a seguirlo e ad accoglierlo ma che continua ad amarlo così come lo vediamo: lì, con le braccia spalancate a dimostrare l’unico amore a misura di croce.