Per lunghi secoli la tradizione popolare ha identificato Barbablù, il sanguinario protagonista della favola noir di Perrault, con il barone Gilles de Rais, il più grande criminale del Medioevo. Nella realtà, risultano pressocchè inesistenti le analogie fra il personaggio creato dallo scrittore parigino e il nobile maresciallo di Francia. Tuttavia, il sanguinario personaggio di fantasia che ha turbato le notti di intere generazioni di bambini, sarà per sempre identificato con quello, in carne e ossa, che, per alcuni anni, fu il fedele compagno d’armi di Giovanna d’Arco.
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Chissà se Charles Perrault ebbe accesso agli atti giudiziari del processo contro Gilles de Rais, quando si immaginò la figura di Barbablù, il sanguinario protagonista della sua celebre fiaba. Si era alla fine del Seicento ed erano passati più di duecento anni dai tragici avvenimenti che ebbero per protagonista il barone de Rais. Ma l’eco dei crimini commessi dal ricco maresciallo di Francia era ancora lontana dall’essersi spenta.
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Apparteneva da parte di padre al casato di Laval-Montmorency, uno dei più illustri di Francia e da sempre fedele alla corona, Gilles de Laval, barone di Rais.
Quando nacque, nel 1404, a Champtocé-sur-Loire, la Guerra dei cent’anni stava conoscendo alcuni anni di tregua. Ben presto sarebbe deflagrata la terza e più cruenta fase, quella della cosiddetta Guerra dei Lancaster, conseguenza della guerra civile scoppiata in Francia fra gli Armagnacchi, fedeli al monarca pazzo Carlo VI, e i Borgognoni, partigiani del duca di Borgogna Giovanni senza Paura.
Approfittando della lotta di potere in atto, gli inglesi intervennero a favore dei Borgognoni sconfiggendo l’esercito francese ad Azincourt. Con la successiva morte di Carlo VI, nel 1422, il trono divenne una contesa fra il delfino Carlo VII, e l’infante inglese Enrico VI.
Alla luce della situazione militare favorevole ai Borgognoni, Carlo VII, re solo di facciata, dovette rifugiarsi a Bourges, nel sud del paese, mentre gli inglesi, sempre più convinti della loro forza, contravvenendo ai patti di Troyes, decisero di dare una spallata definitiva al regno di Francia cingendo d’assedio Orléans, la roccaforte degli Armagnacchi.
Era questo il contesto storico in cui era cresciuto il giovane Gilles de Rais, che, dopo la prematura morte dei genitori, era stato affidato alle cure del nonno materno, Jean de Craon, ricchissimo e dissoluto signore feudale.
De Craon faceva parte di quegli eredi dell’antica cavalleria diventati ormai predatori, e, con la sua banda, era solito assalire nobili e proprietari terrieri a fini di riscatto. Il giovane Gilles, cresciuto fra agi e vizi, partecipava a quelle scorrerie distinguendosi per ardore e crudeltà pari a quella del nonno.
All’età di sedici anni sposò la figlia unica di un ricco possidente, Caterina de Thouars, nipote della seconda moglie del nonno. Forte delle immense fortune di famiglia, Gilles iniziò a condurre una vita di eccessi e sperperi, che lo portò a dilapidare gran parte delle ricchezze accumulate dalla famiglia.
Fu allora che Jean de Craon, approfittando dei suoi legami d’amicizia con Jolanda d’Aragona, suocera di Carlo VII, riuscì a introdurre suo nipote a corte e indirizzarlo verso la carriera militare, nella speranza di moderarne gli ardori.
Iniziava in quel momento una nuova fase dell’esistenza di Gilles, che a soli ventitré anni veniva posto alla testa di un esercito del ducato d’Angiò. La fortuna lo assistette, e il suo esercito conquistò diverse fortezze in mano agli inglesi. Quella del mestiere delle armi fu una parentesi inattesa della sua vita, che lo portò a distinguersi fino a ottenere il riconoscimento di maresciallo di Francia.
Era questa una prestigiosa carica militare assegnata direttamente dal re a chi si distingueva per meriti bellici. Inizialmente poteva esistere in carica un solo maresciallo; fu Luigi IX a nominarne un secondo, per venire incontro alle accresciute esigenze belliche, e due rimasero fino a Carlo VII; nel corso del tempo il loro numero fu poi variamente regolamentato.
Gilles si rivelò un brillante condottiero, e durante la carriera militare l’ideale di eroismo che lo guidava riuscì a prevalere sulla sua inclinazione criminale, costringendo la parte perversa e maligna della sua natura di acquattarsi in un angolo buio della mente, in attesa di tempi più propizi per riemergere.
Come spesso accade, fu una figura opposta alla sua, ad attirare Gilles de Rais: quella di Giovanna d’Arco, che divenne la sua compagna d’armi. I due si conobbero il 29 febbraio del 1429, al castello di Chinon, dove Gilles, insieme ad altri signorotti bretoni e vandeani, faceva parte della corte del delfino Carlo VII.
In quel tempo la Pulzella d’Orléans, guidata da voci e vestita da uomo, incarnava il più puro dei sentimenti patriottici, basato sul desiderio di restaurare l’unità sacra del principio monarchico; proprio il contrario di quanto esprimeva Jean de Craon e la banda di altri nobili suoi pari, che, tradendo il popolo e rinunciando a far valere il principio della sovranità, si erano abbandonati a saccheggi e scorrerie criminali.
Mai personalità potevano essere più in contrasto; eppure, accanto a Giovanna d’Arco, Gilles combatté con grande entusiasmo e valore, fino a meritarsi l’appellativo di “valoroso cavaliere d’armi”, e poi, dopo l’incoronazione di Carlo VII a Reims, la nomina a maresciallo di Francia.
Giovanna pretendeva di avere Gilles sempre a suo fianco, in battaglia, ben conoscendo le doti di coraggio e ardimento del barone de Rais.
Nacque in quel periodo la leggenda di Gilles e Jeanne, e del controverso rapporto fra il “mostro” e la “santa”.
Gilles era attratto da Jeanne, nonostante alcune voci dicessero che si serviva di poteri pericolosi e demoniaci; anzi, erano forse proprio quelle illazioni, ad attrarre Gilles.
La loro amicizia rimarrà uno dei tanti enigmi storici irrisolti, anche alla luce di ipotetiche implicazioni sessuali, visto che Gilles non faceva mistero delle proprie inclinazioni omosessuali, mentre Jeanne, dalle testimonianze dell’epoca, possedeva un aspetto fisico piuttosto androgino.
Dopo la liberazione di Orléans, e l’incoronazione di Carlo VII a Reims, Gilles de Rais e Giovanna d’Arco combatterono insieme in altre battaglie, prima che tutto precipitasse nei destini di entrambi.
Fu un’inversione maligna di esistenze destinate alla gloria, a colpire Gilles e Jeanne.
Giovanna cadde in disgrazia, fu ferita e sconfitta alle porte di Parigi, e subito dopo catturata. Si era nel 1430.
L’anno dopo iniziò il celebre processo alla fine del quale sessanta giudici ecclesiastici, assistiti dal legato del Papa, la dichiararono colpevole di sedici capi d’imputazione, fra cui spiccavano le accuse di stregoneria, eresia, idolatria e commercio col Diavolo. Era il 23 maggio 1931, e Giovanna sarebbe stata messa al rogo nella piazza di Rouen il successivo 30 maggio.
Il supplizio della Pulzella d’Orléans dovette esercitare una forte impressione su Gilles, che vide crollare l’immagine dell’eroina che la sua mente aveva costruito intorno a Giovanna d’Arco. Ma, come vedremo, fu soprattutto quell’accusa di stregoneria, a esercitare sul nobile un’attrazione fatale.
All’improvviso, tutti gli ideali di cavalleria e di gloria guerresca svanirono, e dall’angolo buio in cui si era nascosta, fece capolino nella mente di Gilles quella natura perversa e maligna che, paziente, aspettava solo il momento più opportuno per riconquistare la scena.
Da quel momento Gilles si rintanò nelle sue fortezze vandeane per tre anni, e l’uomo d’armi che era stato l’orgoglio della Bretagna cattolica, cominciò una sua progressiva discesa agli inferi. La morte del nonno, avvenuta nel novembre del 1432, non fece che abolire ogni residuo di limite, nella mente di Gilles.
Attorniato da una fedele corte di domestici e di complici, fra cui spiccavano per sadismo i suoi due cugini, Gilles de Sillé e Roger de Briqueville, il barone de Rais lasciò dietro di sé una lunga scia di abominevoli delitti a sfondo sessuale, che avevano come vittime bambini di entrambi i sessi, spesso presi in trappola mentre chiedevano l’elemosina sul portone d’ingresso delle sue numerose dimore.
Ogni suo castello, da Laval a Ingrande, da Champtocè a Tiffauges, da Machecoul a La Suze fino a Nantes, era stato dotato di una speciale camera di torture, e all’interno di quelle quattro mura venivano commessi i più atroci delitti.
Torturati per giorni, violentati, decapitati oppure squartati, e infine fatti a pezzi, non si venne mai a sapere con esattezza il numero degli sventurati - si parlò di più di duecento bambini, ma probabilmente era un conteggio per difetto - che finirono fra le grinfie di Gilles e dei suoi sodali.
Fu un’orgia di sangue continua, probabilmente conosciuta e tollerata per lungo tempo dalle alte sfere nobiliari ed ecclesiastiche, a motivo dei privilegi dovuti all’alto rango del barone de Rais, il quale in pochi anni riuscì anche a sperperare gran parte delle fortune ereditate.
Ne furono esempio le spese folli fatte in occasione dell’anniversario della presa di Orléans, l’8 maggio 1435, quando le feste si prolungarono per giorni e il barone non lesinò cibo, liquori, vestiti e una regale rappresentazione teatrale, “Il Mistero della liberazione di Orléans”, in cui si riservò il ruolo principale.
A suo seguito marciava sempre una principesca scorta di uomini in armi, e poi servitori, cappellani, priori, e un coro di bambini.
Ma era l’ossessione per le scienze occulte, a esercitare un fascino fatale sulla mente di Gilles de Rais. Specie dopo le accuse di stregonerie a Giovanna d’Arco.
In quegli anni riunì i migliori esperti di arti alchemiche, da Antonio da Palermo a Francesco Lombardo, da Jean Petit a Jean de la Rivière, ma nonostante i numerosi forni istallati nei manieri del barone, gli alchimisti non riuscirono a produrre la famosa polvere rosa, quella da proiezione, necessaria per produrre la pietra filosofale.
Allora gli alchimisti cercarono di evocare Satana, ma senza produrre effetti evidenti.
Poi, dall’Italia arrivò un misterioso venticinquenne di Montecatini, già chierico di Arezzo e famoso per le sue presunte arti di taumaturgo. Era stato il confessore di Gilles, l’abate Eustache Blanchet, a scovarlo nei bassifondi di Firenze. Il suo nome era Francesco Prelati.
Si era nel maggio del 1438, e l’arrivo del fiorentino diede un’accelerata improvvisa alla corsa di Gilles de Rais verso la dannazione eterna.
Nel castello di Tiffauges venne approntata una grande sala per l’evocazione del demonio, con incenso, mirra, aloe, candelabri, fiaccole, e un paio di libri profani contenenti formule magiche per l’evocazione di Satana. Tutto era pronto, ma il Diavolo faceva le bizze e non si degnava di apparire. Allora Prelati annunciò che si dovevano aumentare le messe sataniche e i sacrifici di bambini. E iniziò un’altra ecatombe di adolescenti.
Nella primavera dell’anno successivo avvenne un episodio apparentemente marginale, ma che nascondeva profondi significati simbolici.
Gilles de Rais ospitò in una delle sue dimore una falsa Giovanna d’Arco, una sosia che da alcuni anni si spacciava per la Pulzella d’Orlèans miracolosamente scampata dalle fiamme di Rouen. La falsa Giovanna sapeva cavalcare e comandare, e Gilles le affidò la guida di una parte dei suoi uomini. Fu lo stesso Carlo VII, curioso di incontrarla, a smascherare la truffatrice. L’episodio scosse Gilles. L’immagine angelica della Pulzella non aveva mai smesso di perseguitarlo, e a Gilles non restava che continuare a cercarla nei volti degli adolescenti offerti al Diavolo.
Ma ormai le fiamme dell’inferno attendevano impazienti l’arrivo del barone.
Il 15 maggio del 1440, quando già le voci dei suoi crimini si stavano amplificando, Gilles superò il limite irrompendo armato con i suoi uomini nella chiesa di Saint-Etienne-de-Mermorte, per ingiuriare il tesoriere del duca di Bretagna, al quale aveva da poco venduto il proprio castello di Saint-Etienne. Gilles, in ristrettezze economiche dopo aver sperperato gran parte dei suoi beni, si era messo in testa di essere stato truffato, ed esigeva il riscatto del maniero, a costo di riprenderlo con le armi.
Quel gesto inconsulto - l’irruzione armata in una chiesa costituiva un sacrilegio - procurò al barone l’inimicizia del duca di Bretagna e del vescovo di Nantes, e Gilles de Rais fu messo sotto accusa sia dalla giustizia ecclesiastica, che da quella secolare.
Iniziò un processo che sarà ricordato a lungo, e, a nove anni di distanza da Jeanne, anche il suo compagno d’armi subì la stessa sorte.
Crimini contro i bambini, sodomia, evocazione dei demoni e violazione dell’immunità ecclesiastica, furono i capi d’imputazione che vennero addebitati a Gilles de Rais. Il barone dapprima negò tutto, poi passò a una confessione completa; si autoaccusò di tutti gli orrendi misfatti assumendosene l’iniziativa e senza far cenno all’istigazione da parte di terzi. Non invocò né la sua natura depravata, né l’influsso del Diavolo, prendendosela, piuttosto, con l’educazione dissoluta ricevuta dal nonno, e invitando padri e madri a non allevare i propri figli nell’ozio.
“Ahimè, monsignore! Voi vi date pena e io mi do pena con voi. Vi ho detto cose così gravi da mandare a morte diecimila uomini”, disse Gilles de Rais al presidente del tribunale che lo interrogava. Poi, dopo aver implorato il perdono di Dio, chiese che il popolo lo accompagnasse al supplizio con canti e processioni.
Due ali di folla accompagnarono Gilles de Rais al patibolo. Era una folla incredibilmente compassionevole, forse scossa dalle lacrime versate dal maresciallo di Francia durante la confessione. Il barone aveva ottenuto che il proprio corpo fosse prelevato dalle fiamme prima di esserne divorato del tutto, e poi seppellito nella chiesa del convento dei Carmelitani a Nantes.
Anche l’esistenza terrena di Gilles de Rais, al pari di quella di Giovanna d’Arco, si concludeva sul rogo.
Ma se durante il processo di Jeanne la causa del bene era stata calpestata e tacitata dal crimine dell’eresia e della stregoneria, in quello del suo compagno d’armi, la causa del male si era trasformata in un’offerta a Dio per mezzo della confessione.
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Era il 1697 quando venne pubblicata per la prima volta la fiaba di Barbablù, il ricco signore e leggendario uxoricida seriale. Non è dato a sapere se Charles Perrault ebbe accesso agli atti giudiziari che riguardavano il barone de Rais; risulta tuttavia difficile credere che le vicende del maresciallo di Francia lo abbiano influenzato, nel momento in cui concepì il suo Barbablù. Nelle vicende di Gilles non ci fu nessuna stanza proibita, o chiave macchiata di sangue. Alle sette mogli della fiaba corrispose una sola anonima moglie, nella vita del signore de Rais. Solo la ricchezza li accumunò, e infatti la tradizione attribuì a Barbablù i castelli di Gilles.
Tuttavia, si sa, l’immaginario popolare ha una genesi imprevedibile e ineffabile. Il passaggio da un personaggio reale a uno di leggenda spesso non segue una vera logica. Nel tempo, i delitti di un mostro reale si sono identificati in quelli di un mostro di fantasia, e l’esistenza stessa del barone si è confusa con quella del personaggio del racconto di Perrault. Il risultato è che ancora oggi, specie per gli abitanti della Vandea e della Bretagna, la leggenda del terribile Barbablù è indissolubilmente unita alla damnatio memoriae di Gilles de Rais.
Bibliografia di riferimento:
Georges Bataille, “Il processo di Gilles de Rais”, Guanda edizioni
Michel Tournier, “Gilles e Jeanne”, Garzanti edizioni
Elisabeth Roudinesco, “La parte oscura di noi stessi”, Angelo Colla edizioni