Per quelli vecchi come me, che ci ricordiamo di quando, ancora “bagajott”, sospiravamo ammaliati per la musa “Eupalla”, come diceva Giôan Brera, è stata purtroppo una cocente replica questa fitta al cuore che lunedì scorso ci ha “regalato” la nostra nazionale. E’ tornata, l’altra sera spietata, quella grande sofferenza, lontana di 60 anni, che noi poco più che ragazzi, patimmo nel 1958, per la precisione il 15 gennaio. Quella volta a sbarrarci la strada verso il campionato del mondo, che fu poi vinto dal Brasile nella famosa finale con la Svezia (guarda il caso), fu la modestissima Irlanda del Nord.
-----------------
Per quelli vecchi come me, che ci ricordiamo di quando, ancora “bagajott”, sospiravamo ammaliati per la musa “Eupalla”, come diceva Giôan Brera, è stata purtroppo una cocente replica questa fitta al cuore che lunedì scorso ci ha “regalato” la nostra nazionale. E’ tornata, l’altra sera spietata, quella grande sofferenza, lontana di 60 anni, che noi poco più che ragazzi, patimmo nel 1958, per la precisione il 15 gennaio. Quella volta a sbarrarci la strada verso il campionato del mondo, che fu poi vinto dal Brasile nella famosa finale con la Svezia (guarda il caso), fu la modestissima Irlanda del Nord. Come molti hanno ricordato in questi giorni, fummo battuti dagli irlandesi per 2 a 1. La partita non si giocò però a Belfast come ho sentito stoltamente dire anche l’altra sera a “Porta a porta”, ma a Londra, al Windsor Park: un campo di patate.
Eravamo tutti davanti, quel pomeriggio, a uno di quegli smunti televisori di quegli anni, piazzato su un trespolo nel salone dell’Albergo Stella a Erba Alta. Il “popolo” di noi tifosi della nostra Italia eravamo proprio fiduciosi e convinti che li avremmo mangiati in un boccone quei “verdi” irlandesi.
Avevo 19 anni e amavo il calcio in maniera viscerale, come tutti quelli che non ne sono dotati. Avevo sognato infatti di giocare nei ragazzi dell’Erbese, ma mi cacciarono dopo appena una quarto d’ora della partita di esordio.
Oltre che da “Eupalla” ero ammaliato dagli oriundi che Alfredo Foni aveva messo in campo. Il commissario tecnico, infatti, era un votato al gioco offensivo e “dentro” ci aveva messo tutti i miei oriundi: Schiaffino, Montuori, Ghiggia, Da Costa. Dopo le prime schermaglie, ricordo bene che il gioco era in mano ai verdi avversari che andavano sempre più rendendosi pericolosi. Per la verità ad accorgersene fu in particolare “el sciur Angiulin”, detto “Pachi”, da tutti conosciuto come uno che “di calcio” ne capiva molto.
Negli anni seguenti, la sera nei “conversari di football” al bar, tornò spesso il ricordo di quella famosa battuta premonitrice che fece il “Pachi”: «Ue: par che chi lé turnen mai indrée e la difesa l’è biuta». “Pachi” si era infatti accorto che quei grandi campioni all’attacco non tornavano mai indietro a coprire la difesa che così era nuda. Nel prima tempo l’Irlanda ci infilò due volte. Inoltre l’arbitro, che le cronache del tempo indicarono come un tipo enorme, dal peso superiore sicuramente al quintale, espulse Ghiggia.
Nella ripresa il “Pachi” sembrava un po’ meno critico, sentenziò che le cose andavano un po’ meglio. Infatti Da Costa segnò. Ora la speranza era in un pareggio che ci avrebbe permesso di andare ai campionati del mondo. Ma non arrivò il secondo gol anche perché il centroavanti Gino Pivatelli s’ impappinò quando ormai aveva scartato anche il portiere. Questa volta la sentenza del “Pachi” fu devastante: «Quel lì l’è ‘mè un tripée de majolica». Forse ispirato dal trabiccolo che sosteneva il televisore che avevamo davanti, “Pachi” paragonò il povero e lentissimo Pivatelli a un “treppiedi” di ceramica, quindi a una cosa quasi impossibile da spostare.
Comunque l’epiteto del “tripée de majolica” fu assai ingeneroso. Pivatelli, che è ancora in vita, aveva giocato bene e proprio recentemente spiegò che a tradirlo fu una zolla di fango. Negli anni seguenti si rifece, Pivatelli, segnò molte reti, fu capocannoniere e vinse anche il campionato italiano.
“Tripée de majolica”, entrò così grazie a quel ricordo del “Pachi”, purtroppo andatosene, ancora giovane, qualche anno dopo, nelle mie annotazioni relative ai modi di dire del nostro bel dialetto. Lo infilai nel libro “L’è tua l’è mia l’è morta a l’umbrìa”. Ma chissà per quale ghiribizzo del destino, per quale misterioso scherzo, invece di “majolica”, usai un molto più banale “ceramica”. Al mio amico Renato Battilotti, grande amante del dialetto, questo “ceramica” non piace proprio e spesso mi ammonisce: «Dovevi dire “tripée de majolica, non di “ceramica”». Forse ci fu veramente un “qualche cosa” di perverso che continua a trascinarsi negli anni, quella volta lì, dell’Irlanda del Nord.
Ringraziamo l'autore per averci concesso la pubblicazione di questo articolo apparso su la Provincia, domenica 19 dicembre 2017