Gli economisti seguitano a ricordarci che, per la prima volta dal secondo dopoguerra, le nuove generazioni saranno più povere delle precedenti. Finisce, così, per sempre, l’inganno della crescita infinita e si disvela compiutamente la vera natura del “turbocapitalismo” che, secondo i suoi cantori, avrebbe dispensato felicità a tutti i popoli del pianeta. L’economia arretra e, per questo, abbiamo il terrore di tornare poveri. In realtà, c'è una povertà più drammatica che tendiamo ad ignorare, quella dell'anima. Ci siamo incupiti, siamo arrabbiati e rancorosi, abbiamo smarrito il gusto dell’ironia e la nostra proverbiale socievolezza.
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Forse è proprio vero che si stava meglio quando si stava peggio. Basta scorrere le cronache per rendersi conto dell’imbarbarimento del costume sociale, sempre più sciatto, becero e dozzinale. Si perdoni il nostro candore ma, in un passato neppure tanto lontano, era buona regola comportarsi garbatamente con chiunque. Il turpiloquio era rigorosamente bandito perché contrario al “galateo” che rappresentava il primo mansionario del bravo cittadino. Il maestro delle elementari, con tono ieratico, insegnava che il “rispetto delle istituzioni” iniziava scattando in piedi all’arrivo di ogni adulto. Era un’Italia ingenua, post-contadina e piccolo borghese, che si dischiudeva tra le paure di una trasformazione tanto poderosa quanto indecifrabile negli esiti. Solo oggi, a posteriori, siamo in grado di tracciare un profilo delle nostre mutazioni identitarie. Gli economisti seguitano a ricordarci che, per la prima volta dal secondo dopoguerra, le nuove generazioni saranno più povere delle precedenti. Finisce, così, per sempre, l’inganno della crescita infinita e si disvela compiutamente la vera natura del “turbocapitalismo” che, secondo i suoi cantori, avrebbe dispensato felicità a tutti i popoli del pianeta. L’economia arretra e, per questo, abbiamo il terrore di tornare poveri. In realtà, c'è una povertà più drammatica che tendiamo ad ignorare, quella dell'anima. Ci piace imputare alla crisi ciò che siamo diventati ma, probabilmente, l'unica colpa di questa recessione senza fine è di aver smascherato la nostra vera identità, abilmente occultata dai veli dell’opulenza. Ci siamo incupiti, siamo arrabbiati e rancorosi, abbiamo smarrito il gusto dell’ironia e la nostra proverbiale socievolezza. Siamo diventati sospettosi, gli altri ci piacciono sempre meno, specialmente se sono stranieri di cui ci piacciono solo quelli più ricchi. Il vecchio genitore che autorizzava il maestro ad essere severo resta, ormai, un lontano ricordo perché il cittadino ricusa chiunque osi giudicarlo: meglio un certificato di un medico compiacente per carpire una promozione immeritata. Da lì, fino a salire ai gradini più alti della quotidianità, ogni ambito della vita associata risulta ammorbato da una nuova patologia collettiva: la mediocrità. Non c’è campo che si sottragga alla regola: il mondo dello spettacolo, del giornalismo, delle imprese, delle professioni. Per tacere della politica: il migliore dei politici di oggi farebbe da portaborse ai politici di ieri (dove sono, oggi, i Moro, Nenni, La Malfa, Berlinguer, Almirante?). Riconosciamolo: abbiamo creduto di essere ricchi solo per non ammettere di essere rimasti poveri, spiritualmente e culturalmente. La televisione ha contribuito a sdoganare il cattivo gusto, sublimandolo. La scuola ha perso il confronto con le nuove tecnologie e, chi insegna, avverte sempre più la netta sensazione di versare acqua in un otre sfondato. La laurea, che un tempo conferiva prestigio, oggi produce frustrazione. Per chi ha studiato è triste imbattersi nella spocchia dei “cafoni”, come Flaiano definiva i “servi arricchiti”, caricatura di una borghesia “lampadata” che non ce la farà mai ad essere illuminata. Siamo cambiati profondamente, basta rovistare tra le nostre miserie quotidiane. Ci siamo perfino pentiti di aver vagheggiato la democrazia dove non c’era. Oggi è sempre più forte la tentazione di rimpiangere le dittature dell'est: loro di là, con i loro tiranni sanguinari, e noi di qua, serafici e spensierati. L’Islam che bussa alle porte dell’Occidente induce taluni perfino a rimpiangere il comunismo che aveva la virtù di starsene quieto tra i propri confini. La verità è che abbiamo perso la scommessa di credere che, diventando ricchi, saremmo stati più felici. Ora sappiamo che non è così. L'ebbrezza irrefrenabile di volare alto ci ha spesso impedito di cogliere la preziosità delle piccole cose dimenticando che, come diceva Enzo Biagi, "alla fine, le cose che contano, sono quattro o cinque: sono quelle che ti insegnava la mamma quando eri bambino".
Editoriale apparso su La Provincia di lunedì 30 settembre 2019