Il 1977 è un anno cerniera: rappresenta una cesura o una giunzione. E’ un momento di crisi in cui si incrociano visioni dissonanti della realtà e percezioni incompatibili del futuro. La dicotomia tra scontri sociali e creatività, lotta armata e reinvenzione grafica, crisi della rappresentanza istituzionale dei partiti e radio libere, rappresenta qualcosa di unico nella nostra storia. Un anno adrenalinico vissuto pericolosamente tra creatività al potere e pianificazione dell’attacco al cuore dello stato. Nel 1977 emerge, con durezza inusitata, qualcosa che non si era visto neanche nel 1968: un frattura generazionale insanabile tra padri e figli.
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Il 1977 è un anno cerniera: rappresenta una cesura o una giunzione. E’ un momento di crisi in cui si incrociano visioni dissonanti della realtà e percezioni incompatibili del futuro. La dicotomia tra scontri sociali e creatività, lotta armata e reinvenzione grafica, crisi della rappresentanza istituzionale dei partiti e radio libere, rappresenta qualcosa di unico nella nostra storia. Un anno adrenalinico vissuto pericolosamente tra creatività al potere e pianificazione dell’attacco al cuore dello stato. Nel 1977 emerge, con durezza inusitata, qualcosa che non si era visto neanche nel 1968: un frattura generazionale insanabile tra padri e figli alimentata da rancore, voglia di rivalsa/vendetta, refrattaria ad ogni possibile mediazione e indirizzata anche nei confronti delle gerarchie del sapere. Il cinema italiano non ha (quasi) mai raccontato il 1977. Per comprendere questo passaggio, attraverso il cinema, è necessario procedere à rebours come Huysmans: l’anno cruciale è il 1969. Il 19 Aprile del 1969 nelle sale italiane esce Plagio di Sergio Capogna; il 29 Dicembre 1969 è la volta di Delitto al circolo del tennis di Franco Rossetti. Due film misconosciuti degni di riscoperta: il primo traduce tra immagini letterarie e complesso di Edipo la temperie esistenziale del 1968, il secondo prefigura – con otto anni d’anticipo – innervata dal complesso di Elettra, la frattura generazionale del 1977.
Sergio Capogna esordisce nel 1959 con Un eroe dei nostri tempi, tratto dall’opera omonima di Vasco Pratolini. Nel 1966 realizza un film inedito (per ragioni censorie) dal titolo Le conseguenze che affronta, senza ipocrisie e falsi moralismi, il tema dell’aborto giovanile. Plagio è il terzo film di una carriera che si chiude nel 1973 con Diario di un italiano. L’incipit autunnale di Plagio sembra uscire dalle pagine di Goethe ed è accompagnato da parole come queste: “Certo, i nostri poveri drammi non servono ma è la nostra consapevolezza a servirci, a darci la forza per andare avanti, per lottare… e anche il tuo ricordo mi sarà utile perché niente è più puro al mondo che l’amore di un fanciullo”. Plagio contiene la Bologna degli studenti che occupano le facoltà universitarie, i cortei che sfilano in Via Indipendenza, i cinema affollati per vedere le immagini del Maggio Francese. Il 1968 della cronaca e della Storia è solo lo scenario paesaggistico della vicenda, perché a Capogna interessa indagare altro: l’amicizia che diventa plagio, il menage a trois come istanza libertaria, l’omosessualità latente, i rapporti di forza tra borghesia e proletariato orientati sul registro dei sentimenti e delle pulsioni. I tre protagonisti di Plagio vivono nel contesto di fermenti e fibrillazioni sessantottine ma sfiorano soltanto l’azione. Il loro dramma è tutto intimista, acuito dell’apparato sonoro giocato sull’uso dell’Adagio della Sinfonia n° 5 di Gustav Mahler a fare da contrappunto romantico ai due brani di rock psichedelico cantati da Johnny Davil: “Morning” e “I’ve lost you”. L’educazione sentimentale di Angela, Massimo e Guido è sofferta, tormentata, cosi come lo è il periodo di crisi, speranze, disillusioni che fa da sfondo ad un racconto che orbita attorno a tre movimenti narrativi destinati ad intrecciarsi tra loro: la contestazione studentesca e i relativi scontri di piazza, la ricerca di un’autonomia morale e spirituale da parte dei protagonisti e il contrasto psicologico che regola i rapporti (anche di classe) e le affinità elettive tra i giovani.
Quella del borghese Guido - nella vita della coppia proletaria - è una vera e propria intrusione. Egli entra nel film, come vittima della violenza (solo come figura bidimensionale funzionale allo sviluppo del racconto) ma, il suo ingresso attivo nella vicenda, avviene dal fuori campo, attraverso il lampeggiare dei fari della Mini Minor gialla che violano l’intimità di Massimo e Angela che si stanno baciando. Angela, non avverte che dietro il comportamento, mellifluo e suadente, di Guido si cela in realtà un’ (in)conscia e indomita tendenza al possesso e che tale atteggiamento è finalizzato ad annullare la sua volontà, a soggiogarla, a renderla mera esecutrice passiva delle sue richieste e interprete dei suoi desideri. Massimo, invece, scambia le offerte di Guido - l’appartamento per fare l’amore con Angela, il denaro per studiare - come un dono amicale in grado di regolare i rapporti di classe ad un livello paritario e, nella sua ingenuità, non si accorge di essere proprio lui l’obiettivo di Guido sul piano dell’attrazione omosessuale (mentre Angela è solo lo strumento necessario per raggiungerlo). Guido - che vive con malessere la sua esclusione dalla vita di coppia - da abile stratega si serve della donna, plagiandola, e suscitando in lei reazioni, calcolate (frutto della compassione per la solitudine e tristezza di Guido) che gli garantiscono il primo bacio. Angela è lo strumento da utilizzare per giungere a Massimo. Lo dimostra la sequenza della notte di amplessi - in cui i due ragazzi compiono con Angela gli stessi gesti - che si conclude con le parole di Guido che, sdraiato nel letto con Angela, di fronte a Massimo dice: “Sapevo che avresti perduto il treno…. Sapevo che saresti tornato…ti aspettavo”. La richiesta di relazione a triangolo - cosi bruscamente e sfacciatamente prospettata da Guido - svela la dimensione interiore di ogni personaggio e mette in crisi certezze, suscita dubbi, agita interrogativi in ognuno dei protagonisti, rivelando approcci diversi e conflitti in merito al concetto di libertà.
Guido non è mai uscito dal complesso di Edipo che strazia il suo animo e che porta a pensare che l’incidente in cui persero la vita i suoi genitori in realtà sia stato architettato da lui per uccidere la madre i cui occhi e le cui attenzioni non si sono mai posati su di lui ma solo sul padre. Lo dimostra anche il fatto che - una volta condotti Angela e Massimo nella dimora di famiglia - egli diventi il burattinaio che muove le sue marionette attraverso la patetica rivisitazione di un infanzia infelice, crudele, anaffettiva e le suggestioni relative alla perdita dei suoi genitori avvenuta in modo tragico e violento. Guido muore in un incidente stradale di cui un’ellissi filmica mostra solo il suo corpo riverso sul clacson che continua a suonare. L’uscita di scena avviene, nuovamente, nel fuori campo: come un Werther moderno si uccide dopo aver ottenuto il contatto fisico con l’oggetto del suo desiderio.
Franco Rossetti è prima sceneggiatore del cult Django (1966) di Sergio Corbucci, poi regista del misconosciuto gioiello western El Desperado (1967) e infine autore di un paio di commedie pecorecce (ma con spiazzanti pretese di critica sociale) dai titoli bizzarri quali Una cavalla tutta nuda (1972) e Quel movimento che mi piace tanto (1976). Delitto al circolo del tennis prende titolo e ispirazione di base (nulla di più) dal racconto omonimo di Alberto Moravia scritto nel 1927. Narrazione breve e giovanile in cui si prende in considerazione il delitto gratuito come un rito d’élite: una sorta di gioco perverso e casuale in cui la vittima di turno è una poveraccia divenuta zimbello nella mani di un gruppo di borghesi annoiati e in cerca di emozioni forti. Il film di Rossetti non mette al centro nemmeno il delitto ma solo la sua rappresentazione utilizzata, apparentemente, come arma di lotta di classe - in realtà come strumento di vendetta personale e familiare all’interno di un conflitto irrisolto tra padre e figlia. Il film di Franco Rossetti esce nelle sale pochi giorni dopo Piazza Fontana (12 Dicembre 1969), ma è sorprendente come al suo interno ci sia già tutto quello che, da quel momento in poi, stringerà d’assedio l’Italia durante gli “anni di piombo”. Proprio il fatto che Delitto al circolo del tennis, dedichi ampi spazio alla strategia criminale che porta al finto delitto e altrettanto alla macchinazione che ne consegue – relegando il delitto stesso a elemento marginale, persino insignificante se non in termini di strategia militare – è significativo di come il film mostri un’impressionante capacità di lettura di qualcosa ancora ben lungi dal concretizzarsi; cosa che lo rende opera imprescindibile per leggere il 1977 ma non solo. La regia di Rossetti è asciutta, evita di indugiare inutilmente sul pathos degli eventi narrati, per concentrarsi – con sguardo gelido e distaccato – sulle conseguenze dei comportamenti individuali e su come un irrisolto complesso di Elettra sia utile per mascherare ideali rivoluzionari. Franco Rossetti denuncia già tutto il velleitarismo e l’ipocrisia che caratterizzeranno la lotta armata – qui ancora in fieri. “Oggi il neocapitalismo può permettersi aggressioni violente, scoperte; impone il suo potere attraverso una linea di repressione sempre più spietata. Noi non dobbiamo avere scrupoli sulla moralità o meno dei metodi di lotta. Marce, occupazioni, scontri con la polizia sono cose che servono solo a far incarcerare centinaia di compagni. Basta con il falso eroismo rivoluzionario, noi dobbiamo colpire il sistema nei suoi punti di forza, distruggere i centri di potere e chi li impersonifica”. Parole pronunciate da Lilla, che più che dalla sceneggiatura di un film (opera dello stesso regista e di Ugo Guerra e Francesco Scardamaglia), sembrano uscite da un comunicato delle Brigate Rosse e che testimoniano della temperie che serpeggia nella società già sul finire degli anni’60. Colpire il sistema nei suoi punti nevralgici - nel film di Rossetti - coincide con il colpire Riccardo Dossi, un economista che ha in mano le sorti di interi paesi.
Con le note di ballate folk e con le luci pop di un (quasi) esordiente Vittorio Storaro - Rossetti ricama il ritratto di una società allo sbando, in cui l’identità è annichilita da un disarmante vuoto esistenziale. Il ritratto è quello di una generazione che è peggiore di quella precedente - questo perché gli ideali in cui crede sono stati, aprioristicamente, sconfitti dall’individualismo sfrenato che l’ammorba e dalla corruzione che ispirano le presunte azioni rivoluzionarie. Se Sandro - nonostante il suo ingresso nella borghesia come maestro di tennis - viene trattato con disprezzo da Riccardo al momento di staccargli l’assegno, se Benedetta è solo un dente (il più fragile e il più disinteressato) dell’ingranaggio necessario per portare a compimento il ricatto, il cuore del film è Lilla, la quale mette in atto tutta la macchinazione con intenti propagandistici ed eversivi, per poi, alla lunga, rivelare che il suo agire è dettato semplicemente da un ambiguo odio personale nei confronti del padre. E’ lo stesso Sandro a rinfacciarglielo nel momento decisivo dell’epilogo del film: “Volevi fargli del male, ma volevi anche che reagisse, che ci stritolasse, che trionfasse. Ti sei servita di noi… perché tu lo ami. Tu sei innamorata di tuo padre”.
Dopo l’amplesso in mezzo alla natura con Benedetta, Sandro prende consapevolezza dell’ipocrisia che lega le loro azioni, quando dice: “Non possiamo cambiare il mondo usando gli stessi imbrogli, gli stessi sporchi metodi di questo mondo”. Poco prima, però, lo stesso Sandro evoca il 1968 sotto forma di sogno – creando uno strano cortocircuito tra i due anni – quando racconta alla ragazza: “Sai cosa sogno sempre? Sono in strada in città con centinaia di altri studenti; anch’io, nel sogno, sono uno studente. La polizia carica, ci picchia con i manganelli… ma io scappo. Poi grido: “Addosso!” e picchiamo anche noi con i pugni, con i calci… è una lotta pulita, chiara…” Ecco, l’ingenuità e la verginità sessantottine sono ormai perdute, spazzate via, relegate in un sogno; gli ideali hanno lasciato il posto all’egoismo, le istanze rivoluzionarie ad un conformismo becero e utilitaristico.
Il cinema Italiano che legge il 1968 come la negazione della libertà non può che interpretare il 1977 come: l’anno in cui il futuro finì.
Fabrizio Fogliato
Critico cinematografico e Storico del cinema
www.fabriziofogliato.com
Per gentile concessione dell'autore, che ringraziamo. Articolo pubblicato domenica 19.11.2017 sull'inserto domenicale (L'Ordine) del quotidiano comasco La Provincia.