I silenzi della Chiesa cattolica sui presunti "vizietti" del Cavaliere. L'intervento di un grande teologo sulla necessità che la Chiesa di Roma abbia "il coraggio di chiedere maggiore coerenza di quanto non abbia fatto finora, dichiarando apertamente che l'immoralità, sempre inaccettabile, quando è pubblica va pubblicamente riprovata".
Cogliendo l’occasione di un intervento benevolmente provocatorio, apparso su questo blog il 28 maggio 2009, ma che al contempo ha posto all’attenzione questioni di indubbia rilevanza etica, vorrei proporre alcune considerazioni in merito alla cosiddetta “questione morale” che investe il nostro paese. Innanzitutto, sono pienamente d’accordo sul fatto che la categoria della testimonianza sia l’unica forma di credibilità personale, solo la corrispondenza tra ciò che si crede e ciò che si vive, infatti, esprime la piena statura della dignità della persona umana, il cui esempio può allora diventare modello e fonte di moralità sociale. Certo, si tratta di decidere di quali valori stiamo argomentando, ma nell’intervento del nostro commentatore il riferimento è ai valori cattolici. In questo senso, mi pare doveroso osservare che la storia della Chiesa è costellata di esempi di donne e uomini santi non solo nel significato proprio della spiritualità cristiana, ma anche nel senso che con la loro vita hanno contribuito a edificare la società del loro tempo, aiutando a costruire in certo modo una civiltà degna dell’uomo. Da questo punto di vista, la speranza che pensiero laico e cattolico possano coesistere armonicamente ha trovato, almeno qui, concrete espressioni storiche, come ha lucidamente osservato uno degli intellettuali laici più acuti del novecento, Karl Löwith: «Il mondo storico in cui si è potuto formare il “giudizio” che chiunque abbia un volto umano possieda come tale la “dignità” e il “destino” di essere uomo, non è originariamente il mondo, oggi in riflusso, della semplice umanità, avente le sue origini nell’“uomo universale” e anche “terribile” del Rinascimento, ma il mondo del Cristianesimo, in cui l’uomo ha ritrovato attraverso l’Uomo-Dio, Cristo, la sua posizione di fronte a sé e al prossimo» (Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, Torino 1959). Ma la storia non è fatta solo di santi, e la prospettiva cristiana nella sua radicalità evangelica offre, in questo senso, un interessante spunto di riflessione: “chi è senza peccato scagli la prima pietra” (Gv 8, 7) giudizio lapidario che in sintesi vuole dire che il peccato, l’errore, la fallibilità, appartengono alla realtà storica dell’essere umano come suggerisce in modo icastico il salmo 50: “ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre”. A questa concreta condizione fa riferimento Gesù quando di sé dice: “Non sono venuto per i sani ma per i malati; non sono venuto per i giusti ma per i peccatori” (Mt 9, 12-13). La coscienza credente, riconoscendo questa condizione, accoglie quest’invito: è l’inizio della conversione, il sorgere della comunità dei discepoli, dove però, si badi, non è annullato l’esercizio della critica, la possibilità di correggere il fratello, in quella dialettica di verità e carità la cui ultima sintesi è in definitiva rimandata a Dio, perché affonda le radici nel mistero stesso della libertà umana. E’ ancora una volta Matteo a illustrarci, in una catechesi magistrale, questo principio: “Se il tuo fratello commette una colpa, và e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano” (Mt 18, 15-17), come uno, cioè, la cui condotta morale pubblica non è più secondo la morale cristiana, ma il cui cuore però resta sempre sotto lo sguardo di Dio, giusto giudice, nel cui mistero di grazia si apre, anche per il peccatore più abbietto, la speranza del pentimento. Da questo punto di vista, la Chiesa, come istituzione che si regge sull’equilibrio delicatissimo, mirabile certo ma fragile altrettanto, che vede a un polo l’uomo e all’altro Dio, detta sì norme morali ma indica, oltre la coscienza, il tribunale di Dio come luogo proprio del redde rationem, il cui giudizio in terra si realizza però nel sacramento della confessione: “In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo” (Mt 18, 18).In questo senso, i peccati di una persona, anche quelli di un politico, riguardano il suo confessore non l’istituzione ecclesiale, e i rappresentanti di tale istituzione, in quanto tali, non hanno un ruolo di direzione spirituale. Come ha osservato Vittorio Messori: “Berlusconi, secondo il codice di diritto canonico, è un divorziato risposato perciò è un peccatore manifesto … ma se bussa alla porta del confessore, il suo caso è preso in esame e la chiesa dà a Dio quel che è di Dio” (La Stampa, 26 maggio 2009). Il problema invece si pone quando questo stesso politico afferma di rappresentare i cattolici e i loro valori. Atteggiamenti di questo genere trapassano inevitabilmente in una sorta di ipocrisia pubblica che disorienta, confonde e indigna. E’ uno scandalo per la fede della gente, vera pietra di inciampo posta sul loro cammino. E su questo Gesù non fu affatto tenero: “E' inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per cui avvengono. E' meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare” (Lc 17, 1-2). Esiste una questione di misura nelle cose e la chiesa, come istituzione, qui, deve avere il coraggio di chiedere maggiore coerenza di quanto finora non abbia fatto, dichiarando apertamente che l’immoralità, sempre inaccettabile, quando è pubblica va pubblicamente riprovata. Altrimenti il sospetto è che si taccia o si copra per interesse, come ha descritto senza mezzi termini l’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga: “Alla Chiesa molto importa dei comportamenti privati. Ma tra un devoto monogamo [leggi: Prodi] che contesta certe sue direttive e uno sciupa femmine che invece dà una mano concreta, la Chiesa dice bravo allo sciupa femmine. Ecclesia casta et meretrix” (La Stampa, 8 maggio 2009). Occorre che la chiesa ritorni ad essere più profetica, a servire con più radicalità il vangelo e la sua verità per il bene dell’uomo. Ma questo, come la storia tante volte ci ha mostrato, è il vero pericolo contro il quale la Chiesa deve sempre lottare, e ce lo ricorda un passo di un Padre della Chiesa, l’integerrimo sant’Ilario di Poitier, che già nel sec. IV metteva in guardia dalle lusinghe e dai regali dell’imperatore Costanzo: “Noi non abbiamo più un imperatore anticristiano che ci perseguita, ma dobbiamo lottare contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga; non ci flagella la schiena ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro” (Ilario di Poitiers, Contro l’imperatore Costanzo 5). Ecco perché la questione è seria: senza la profezia rimane la complicità.