Bjorn Borg irruppe nel mondo del tennis professionistico all’inizio della stagione 1973. Il suo impatto – in uno sport che stava vivendo anni di assestamento dopo che, solo cinque anni prima, era finalmente crollato l’invisibile muro che divideva dilettanti e professionisti dando vita alla cosidetta “Era Open”– fu devastante sotto molteplici aspetti: nello stile di gioco, nell’atteggiamento dentro e fuori dal campo, nella continuità di risultati. Negli anni Settanta del XX secolo il tennis stava lentamente abbandonando l’erba e gli schemi di attacco. Il progressivo aumento di tornei su superfici lisce e regolari (terra, cemento, sintetico) portò inevitabilmente alla nascita di nuove tattiche di gara in aperto contrasto con i secolari schemi del Lawn Tennis.
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Bjorn Borg irruppe nel mondo del tennis professionistico all’inizio della stagione 1973. Il suo impatto – in uno sport che stava vivendo anni di assestamento dopo che, solo cinque anni prima, era finalmente crollato l’invisibile muro che divideva dilettanti e professionisti dando vita alla cosidetta “Era Open”– fu devastante sotto molteplici aspetti: nello stile di gioco, nell’atteggiamento dentro e fuori dal campo, nella continuità di risultati.
Negli anni Settanta del XX secolo il tennis stava lentamente abbandonando l’erba e gli schemi di attacco. Il progressivo aumento di tornei su superfici lisce e regolari (terra, cemento, sintetico) portò inevitabilmente alla nascita di nuove tattiche di gara in aperto contrasto con i secolari schemi del Lawn Tennis. Con Borg il serve and volley scomparve definivamente dalla scena per lasciare il posto alla regolarità esasperante scandita da incessanti colpi in top spin e rimbalzi altissimi. Fiaccare l’avversario ricacciandolo sempre più indietro e indurlo all’errore anziché cercare il punto diretto. Una filosofia semplice, ma efficace: il punto, nel tennis, si conquista anche così. Borg fu inoltre anche tra i primi ad utilizzare il rovescio a due mani, un colpo ancora poco diffuso che può sorprendere l’avversario con traiettorie impreviste e angoli strettissimi. Con queste armi Bjorn Borg sbancò anche il tempio sacro di Wimbledon.
Bjorn (che in svedese significa “orso”, un soprannome che lo accompagnerà per tutta la carriera, mentre Borg si traduce in “castello”) era l’idolo della folla. Un’icona sportiva spesso circondata da uno stuolo di ragazzine in visibilio, come una moderna rockstar. Ma Borg era anche la quintessenza del professionismo e della scienza applicata al tennis. Da un lato amante della bella vita e delle serate in discoteca, dall’altro freddo calcolatore durante i match. Mai una parola fuori posto, mai un atteggiamento sopra le righe. Riguardando una sua partita non si scorgono gesti di sconforto, né di esagerato giubilo al termine di un punto. Borg era una vera e propria macchina applicata al tennis. Metodo e schemi consolidati ripetuti all’infinito in allenamento e in partita. Lunghi palleggi con traiettorie volte a disegnare il campo in tutta la sua interezza. Fino all’ultimo punto, quello della vittoria. Un tennis che, a prima vista, potrebbe apparire estremamente noioso, ma che cela una strategia studiata meticolosamente a tavolino.
Nei nove anni da professionista, dal 1973 al 1981, Borg conquistò 11 tornei dello slam, praticamente almeno uno ogni anno tranne nella stagione d’esordio. Fu re di Parigi in sei occasioni su otto partecipazioni complessive (saltò l’edizione 1977 in polemica con la Federazione Internazionale e uscì per mano di Adriano Panatta nel 1973 e nel 1976). A Wimbledon inanellò cinque successi consecutivi dal 1976 al 1980, perdendo la finale del 1981. Perse quattro finali dello US Open: una sulla terra verde di Forest Hills e tre sul cemento a New York. In Australia giocò una sola volta, a inizio carriera, poi non si presentò più allo slam Down Under nemmeno da turista. Nel suo palmarès figurano anche due Masters del circuito Grand Prix e un trionfo alle finali di Dallas del circuito WCT. Vinse, praticamente da solo, la Coppa Davis 1975. A fine anno la classifica del computer lo ha visto guardare tutti dall’alto verso il basso in due sole occasioni. L’algoritmo di calcolo utilizzato nei primi anni dell’era informatica lascia però parecchi dubbi agli appassionati di tennis: il dominio dello svedese sugli avversari e la continuità di rendimento non trovò infatti adeguato riscontro nei freddi numeri del ranking pubblicati ogni lunedì.
Borg era l’uomo del mezzo Slam. Vinceva regolarmente le prime due prove a Parigi e a Wimbledon – centrò la doppietta per tre anni consecutivi, dal 1978 al 1980 – per poi arenarsi sulle rive dell’Hudson: a New York raggiunse quattro volte la finale e ne uscì sempre sconfitto dai colpi mancini dei due più forti tennisti statunitensi dell’epoca, Jimmy “Jimbo” Connors e John McEnroe. Le sconfitte con Connors nel 1978 e con McEnroe nel 1980 interruppero la corsa dello svedese verso un probabile Grande Slam, rendendo così inutile la lunga e dispendiosa trasferta in Australia, in quegli anni relegata a quarta prova da una riforma del calendario che produsse effetti venefici e indusse l’ATP a ritornare sui propri passi e ripristinare il naturale ordine dei quattro Major a partire dalla stagione 1987.
Si ritirò, di fatto, al termine del 1981. Troppo cocenti le tre finali slam perse consecutivamente da John McEnroe (Wimbledon ’81 e Flushing Meadows ’80-’81). Gli stimoli vennero a mancare: essere il numero 2 del mondo alle spalle dell’amico-rivale McEnroe non era accettabile. Nel corso dei due anni successivi giocò solo il torneo di casa, a Montecarlo – a pochi km da dove viveva con la prima moglie Mariana Simionescu – uscendo prematuramente per mano dei transalpini Yannick Noah e Henri Leconte. Nel 1984 perse di nuovo contro Leconte a Stoccarda l’unico match dell’anno e divenne ufficialmente un ex giocatore.
Non ho purtoppo mai visto giocare “in diretta” il Borg cibernetico e vincente, ma sono stato testimone del suo rientro in campo che fu tanto clamoroso quanto disastroso.
Tornò a calcare i rettangoli di gioco nel 1991, spinto forse più da necessità finanziarie che da un ritrovato spirito agonistico. Per il rientro scelse lo stesso palcoscenico dell’addio: il Country Club di Montecarlo. Al momento del sorteggio del tabellone tutti si domandavano chi sarebbe stato l’avversario prescelto dalla dea bendata per affrontare l’ex dominatore della terra rossa. Toccò a Jordi Arrese, un modesto terraiolo catalano, che raggiungerà l’apice della carriera l’anno successivo perdendo la finale dei Giochi Olimpici nella sua Barcellona. La partita fu programmata all’ora di pranzo nella giornata di martedì. Tornai di corsa a casa da scuola per non perdere l’evento dell’anno in TV. Fu senza dubbio un evento mondano, oltre che sportivo, che riempì lo stadio all’inverosimile.
Il Borg 2.0 che si presentò in campo sembrava avere le stesse sembianze del campione di un tempo: lunghi capelli biondi raccolti in una fascia, completo bianco, racchetta Donnay di legno (opportunamente verniciata per dare l’illusione che fosse un moderno attrezzo di metallo). Atleticamente e stilisticamente, invece, non era nemmeno lontanamente l’ombra del cyBorg che fu. Ricordo un doppio fallo in cui tirò la seconda di servizio un metro oltre la linea di fondo. Non resse il ritmo di Arrese e finì presto la sua avventura con un umiliante 6-2, 6-3. Giocò qualche altro match nel corso delle due stagioni seguenti, senza mai provare la gioia di un successo. Ebbe più fortuna nel circuito senior, disegnato apposta per le vecchie glorie. Oggi è il capitano della selezione europea della Laver Cup, in cui l’Europa ha sempre vinto. E’ padre di Leo, un teenager che prova a sfondare nel tennis evitando di farsi appiccicare in fronte l’etichetta “figlio di Borg”.
Nei ricordi di tutti resta però il vero Borg, quello che cambiò il tennis. Non è esagerato parlare di tennis “prima” e “dopo” Borg. Il ruggito dell’Orso del Castello ha scosso le tradizioni e posto le basi del tennis moderno interpretato, tra gli altri, da Lendl, Agassi e Djokovic. Grazie, Bjorn.