Nel nostro paese, il calcio resta lo sport più popolare. Trattandosi di uno sport di massa, non possiamo continuare a baloccarci nell'illusione che il razzismo presente nelle curve non rispecchi il razzismo presente nella società. Per quanto tempo ancora dobbiamo recitare questa farsa? Pertanto, piaccia o no, c'è una domanda che ogni bravo italiano dovrebbe avere il coraggio di porsi, senza fingere di adontarsene: siamo diventati un popolo razzista? Si tratta di una domanda che non possiamo più eludere adducendo pretestuosamente la notoria generosità degli italiani o citando, in modo specioso, i numerosi esempi di solidarietà o di integrazione esistenti nel paese.
Milano, 12 dicembre 1969, Piazza Fontana, Banca nazionale dell’Agricoltura, ore 16.38. Il locale è affollato da gente comune: allevatori, mediatori di bestiame, artigiani. Sotto il grande tavolo centrale esplodono 17 chili di tritolo: una strage. Perdono la vita 13 persone, 4 moriranno nei giorni successivi, i feriti, alcuni gravi, sono 87. Inizia così la “strategia della tensione”, ossia un piano ordito da pezzi deviati dello Stato (servizi segreti, gruppi speciali delle forze di sicurezza). Utilizzando manovalanza fascista, attraverso stragi e attentati, si vuole creare un clima di paura e di sfiducia nelle istituzioni democratiche per favorire l’instaurazione di un regime autoritario.
Il ritratto del nostro paese, così come emerge dal 53° Rapporto del Censis sulla situazione sociale in Italia, conferma che è in corso nella nostra società un lento processo di dissoluzione dei valori fondamentali nei quali ci siamo riconosciuti per decenni. L'attesa di un “uomo forte” dimostra che la democrazia viene vista da molti cittadini come un inutile orpello. La politica è chiamata a rendersi conto della gravità di questo momento storico dimostrando la giusta attenzione per il lavoro e ponendo fine, una volta per tutte, ai miserabili teatrini a cui ci ha abituato negli ultimi anni. Non si scherza con la vita delle persone, delle istituzioni e di un'intera nazione.
4 marzo 1929: crollo vertiginoso dell’indice Dow Jones, il più clamoroso di sempre (fino a quel momento) durante l’Inauguration Day di Herbert Hoover, il 31° presidente degli Stati Uniti inaugura il suo mandato sotto i peggiori auspici; durante l’autunno assiste impotente di fronte al “Big Crash” del 29 ottobre. All’inizio dell’anno gli americani sono del tutto ignari del disastro incombente, vivono nella folle ed esagitata “Jazz Age” – tra eccessi, ed energia trasgressiva e modernista. L’atmosfera che attraversa l’America è un filo elettrico che dà la scossa ad una folla anonima e sognatrice: il riflesso di tale euforia è lo spettacolo.
Se fossimo un paese normale, davanti alla inquietante opacità delle modalità di finanziamento del sistema politico, un cittadino virtuoso dovrebbe rivoltarsi sdegnosamente. Di contro, il paese assiste con indifferenza a quel “mostruoso connubio” tra politici, imprenditori e professionisti che continua a vedere nello spazio pubblico l'occasione per fare denari con un cinismo scellerato e, talora, perfino disumano: “topi sul formaggio”, come scrisse Paolo Sylos Labini 40 anni fa. Clientelismo e corruzione sono diventate una patologia sociale che rispecchia il volto di una classe dirigente inguaribilmente incline al malaffare, che, con la complicità della politica, è diventata un alibi collettivo che legittima ogni devianza, piccola e grande.
L'insuccesso, le feroci critiche dei colleghi durante le Giornate del Cinema Veneziano del 1973 (il Festival è abolito, le proiezioni pubbliche e in piazza) per il film La Proprietà non è più un furto, il susseguente ostracismo per Todo Modo (1976), provocano in Petri una profonda disillusione verso le potenzialità espressive e comunicative del mezzo cinematografico, portandolo all'esasperazione del pessimismo, ad una visione della realtà sempre più astratta, metafisica. Nell'ultimo periodo della sua vita (stroncato da un tumore, a 53 anni, il 10 novembre 1982), il regista si trova stretto in quel vicolo cieco che fà emergere malessere, sofferenza dell'artista.
C'è qualcosa di profondo che si è rotto nella nostra società di cui la crisi economica ha sconvolto convinzioni, certezze e modi di pensare. In passato c'era una sorta di rassegnazione atavica ad accettare le storture e le ingiustizie sociali e, infatti, come i padri, i figli neppure si accorgevano dell'incompetenza di un professore, di un medico, di un avvocato o di chiunque rivestisse un ruolo di prestigio. Oggi non è più così. I nostri giovani sono innegabilmente più scafati e si sono accorti di vivere in un paese ingiusto, vecchio e malato, dal quale non potranno attendersi né un lavoro, né una pensione. Hanno capito da un pezzo che li abbiamo traditi. Per questo dovremmo avere il buon gusto di tacere e di ascoltarli, per una volta.
Nel novembre del 1916 si tengono le prime elezioni politiche dopo la tragedia della I guerra mondiale. La situazione politico-sociale del Paese è confusa e fragile. Le trattative di pace si sono concluse in modo insoddisfacente, l’Italia ha ottenuto il Trentino-Alto Adige e il Friuli-Venezia Giulia, ma non la Dalmazia ed è esclusa dalla spartizione delle colonie tedesche. I nazionalisti insorgono contro il “tradimento” degli alleati con lo slogan della “vittoria mutilata”. Il Presidente del Consiglio Orlando deve lasciare l’incarico a Nitti, un economista di valore, ma politicamente inadatto a governare un Paese sottoposto a forti tensioni interne.
Il c.d. “coefficiente di Gini”, chiamato anche Indice di Concentrazione, rappresenta la misura utilizzata dagli esperti per descrivere le disuguaglianze di reddito e l'iniqua distribuzione della ricchezza in tutti i paesi. Il coefficiente di Gini ha dimostrato efficacemente che, senza un adeguato sistema di protezione sociale, il nostro paese non è in grado di uscire dalle secche di una crisi che a molti italiani appare senza fine. Per salvare la democrazia dalle insidie del populismo occorre reinventarsi un modello sociale in grado di restituire al cittadino la serenità perduta. Già, la serenità: è proprio questo il vero, grande nemico dei populisti.
Quando è chiuso nell’abitacolo l’individuo condivide il “non luogo” della strada (autostrada) in mezzo ad altri nelle stesse condizioni: si sente valorizzato se l’automobile che “indossa” lo fa emergere dal gruppo, potenziato nelle sue prerogative e nell’esercizio del suo potere “personale” in funzione di marchio, cilindrata e dimensioni della vettura. Il “non luogo” dell’autostrada e la semantica antropologica applicata all’automobile sono i due tratti distintivi con cui vengono cantati nel cinema gli italiani in autostrada: immortalati nell’archetipo paradigmatico de Il sorpasso (1962) di Dino Risi. (segue)