L’imminente ricorrenza del 25 Aprile si sta lentamente trasformando in una sorta di “esame di democrazia” della destra italiana che metterà a dura prova l’abilità di Giorgia Meloni nel dimostrare la discontinuità del suo partito con tutte le compagini del passato che non hanno fatto mistero della simpatia per il Ventennio. In verità, esiste una larga maggioranza del paese che ritiene ozioso e, perfino strumentale, qualunque riferimento alle ascendenze culturali della destra italiana. Di contro, esiste una parte non irrilevante della classe intellettuale che insiste sulla necessità che la destra italiana dichiari una volta per tutte, in modo inequivocabile, di non ritenere il Ventennio un semplice “incidente della storia”.
"Sono passati quasi cinquant’anni ma ricordo, con immenso dolore, come fosse ieri, l’urlo lancinante di papà Elios Mazzotti e il pianto sommesso della mamma Carla. Era la sera del primo settembre del 1975 ed ero appoggiato al cancello chiuso della villa di Galliano: ero stato io a dare alla famiglia la notizia del ritrovamento del corpo di Cristina". Emilio Magni racconta per noi, in esclusiva, la tragica storia del rapimento di Cristina Mazzotti di cui, come cronista della "Provincia", seguì gli svlluppi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, fino alla tragica notizia del corpo ritrovato in una discarica.
La vera, grande vittoria di Berlusconi è di aver creato dal nulla una egemonia culturale che ha prodotto i suoi effetti non solo nella politica ma anche nell'etica pubblica. Di contro, la grande sconfitta della sinistra è di aver fatto perdere ogni traccia di sé nella cultura di un paese che oggi vede la legalità come un optional, che identifica la solidarietà con le tasse, che nutre una profonda ostilità per le regole e, conseguentemente, per la magistratura, per i sindacati e per l'Europa. Abbracciando l'austerità imposta dall'Ue, infatti, la sinistra ha colpevolmente ignorato la lenta proletarizzazione dei ceti medi e la rabbia sociale delle periferie facendosi interprete di quella parte più progressista dell'establishment che continua a vedere in Berlusconi un grossolano parvenu.
Più che una riforma, si tratta di un coacervo di norme sconnesse e prive di linearità. Il cittadino ignora la follia della riforma del processo civile che, nata dalla necessità di rispondere alle urgenze imposte dal PNRR, non è in grado neppure lontanamente di affrontare e risolvere i problemi reali della nostra giustizia che ha assolutamente bisogno di investimenti per poter infoltire gli organici. Resta, questa, la vera emergenza del nostro paese che va ad aggiungersi a quella della sanità e della scuola: rendiamoci conto, stiamo parlando dei settori più delicati che una democrazia dovrebbe avere cura di preservare.
Il “regionalismo differenziato” rappresenta una riforma che collide con il progetto presidenzialista della Meloni. La bozza del ministro Calderoli contempla il trasferimento alle Regioni di ben 23 materie ma non dice nulla sulla necessità, come recita la Costituzione, che “i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (art. 117, comma 2). Siamo davanti all'ipotesi di una “secessione soft” che, in quanto tale, non potrà mai trovare l'avallo di Giorgia Meloni alla quale non interessa portare a compimento la riforma presidenziale in un paese definitivamente frantumato e diviso.
“Uccidi l’indiano e salva l’uomo”. Era uno dei motti ammonitori vergati sulle mura delle scuole residenziali, 139 istituti che, dal 1874 al 1996, ospitarono circa 150mila bambini nativi delle Prime Nazioni, Métis e Inuit affinché si assimilassero e si trasformassero in piccoli cristiani. In gran parte gestite da religiosi cattolici (e in minor parte da anglicani o dalla Chiesa Unita del Canada), l' assimilazione consisteva nell'essere sottratti alle famiglie di origine con la forza, nel ricevere nomi nuovi e nella proibizione di parlare la lingua nativa. “Un genocidio culturale”, lo ha definito la Commissione per la verità e la riconciliazione del Canada.
Dopo l'abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, la politica tende ad utilizzare qualunque canale, lecito e illecito, per presidare tutte le sedi ritenute strategiche sotto il profilo della capacità di creare consenso e denaro. La democrazia, anche la più “nobile” delle democrazie, si fonda su questa “ignobile” osmosi in virtù della quale il denaro alimenta il potere e il potere alimenta il denaro. In quest'ottica, oggi il mercato della politica non esita ad allargare il proprio raggio d'azione varcando i confini nazionali, come dimostra la vicenda del Qatargate da cui emerge chiaramente che affari e politica sono abitati dagli stessi personaggi che, in prima persona o attraverso i propri mandatari, si siedono allo stesso tavolo.
La fase pre-congressuale a cui stiamo assistendo in queste settimane, disegna il profilo di un partito in corso di decomposizione dal quale, stando all'occhiuto riposizionamento di molti peones, si può agevolmente arguire che sarà Bonaccini a uscirne vittorioso. Risulta fin troppo scontato che l'affermazione di Bonaccini consentirà il rientro di Renzi e di Calenda nonché l’arrivo dei “reduci” di Forza Italia che, dopo il tramonto del Cavaliere, non intendono offrirsi in pasto alla destra meloniana. Ecco qui, pertanto, il famigerato “terzo polo”. Che dire: siamo alla triste epifania di un “eterno ritorno” che ci condurrà presto a riesumare Ghino di Tacco e la politica dei due forni.
Pelkosenniemi (FIN), confluenza tra i fiumi Kemijoki e Kitinenpoco, abitato di 2.972 anime generose, poco meno di 100 km a nord di Rovaniemi, il paese di Babbo Natale. Sono passati trent’anni, tuttavia me la ricordo bene la notte di Natale del 2017 e il tuffo che dovetti fare nell’acqua gelida del Ticino. Ero appena sbarcato da un volo proveniente da Naypyidaw capitale birmana, laddove avevo documentato il massacro dei Rohingya; quindi speravo proprio di raggiungere il mio maso in Valle Intelvi e Gattopard, prima della mezzanotte. (segue)
Oggi, 19 dicembre, ricorrono trent'anni dalla scomparsa di Gianni Brera e, a nome di tutti coloro che Gianni Mura ebbe a definire “Senzabrera”, riteniamo doveroso dedicargli un pensiero che vuol essere, altresì, un’occasione per farlo conoscere ai più giovani. Gianni Brera è stato uno dei più grandi giornalisti di tutti i tempi. E’ stata una figura sontuosa del giornalismo italiano perché aveva inventato un proprio linguaggio, dagli inimitabili stilemi, di cui ancora oggi siamo tutti debitori. Tanto per fare qualche esempio, dobbiamo a Brera termini come centrocamposta, rifinitore, cursore, libero, fluidificante, forcing, incornare, smanacciare, uccellare, goleador, melina (vedi dizionario dei brerismi in calce all'articolo).