Jack Cabodi è un tenente in forza al dipartimento di polizia di Vancouver. Cabodi è un Kwakiutl, nativi americani stanziati nel Central Okanagan. Un bacino di tradizioni e sapienza al quale, attraverso la guida dello zio Arthur, il tenente sa di poter attingere per ogni evenienza. Il suo intuito e la sua forza di volontà sono messi a dura prova dal caso che ha inorridito l’intero Canada: una scia di efferati omicidi che vede come vittime delle donne. L’autore è un killer che si ingegna a dare un aspetto raccapricciante alla scena del crimine.
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27 gennaio
Mi sveglio raggomitolato nelle lenzuola, e per un tempo indefinito mi lascio catturare dal tepore delle coperte.
Mi vengono in mente le parole di Chan Lin, e decido di fare un salto all’Università per salutare Lamart. Non lo vedo dai tempi della Scuola di polizia.
Lamart lavora alla McGill, una delle più prestigiose università canadesi, e ho letto in rete che il suo libro Psycology of Investigative Interviews è diventato un testo obbligatorio nella facoltà di Diritto dell’Università di Montréal.
Faccio una colazione veloce a base di fette biscottate, poi do un’occhiata a Google Maps per localizzare la sede dell’università.
Attraversato Place des Arts e il vento freddo assomiglia alla spinta silenziosa del Grande Spirito. La neve fresca riflette il chiarore algido dei lampioni. Dopo aver attraversato la piazza mi ritrovo a Chinatown. Mi piace respirare profumo d’Oriente, e rimango colpito dall’ordine che regna nel quartiere. Mi imbatto in una comitiva di studenti e li seguo fino a raggiungere la sede dell’università.
All’ingresso noto le fotografie dei personaggi famosi che l’hanno frequentata, e riconosco quelle di Burt Bacharach e Leonard Cohen.
Chiedo a un inserviente del professor Lamart, e mi viene indicato un corridoio con l’insegna della facoltà di Diritto. Lo attraverso e trovo il suo ufficio nella sezione di criminologia. Busso, e appena mi vede Lamart ha un’espressione di sorpresa seguita da un sorriso.
«Cabodi! Non ci credo, sei proprio tu, entra dai!».
Ci abbracciamo e passiamo i successivi minuti a ricordarci dei vecchi tempi, e di quello che ci è successo negli ultimi anni. Quando poi gli racconto dell’indagine, Lamart mi ascolta senza muovere un muscolo.
«Se mai lo prenderò», concludo, «mi piacerebbe poter parlare a quattr’occhi con quel bastardo. Per comprendere. Mi capisci, vero? Comprendere cosa lo spinge a fare quello che fa».
«Capisco. Ti potrebbe capitare di dover interrogare qualcuno che tu pensi possa essere il colpevole, ma questo non è il punto, Cabodi».
«È il tuo campo, Lamart. Gli interrogatori non sono mai stati il mio forte».
«Si può sempre migliorare. Da quello che mi hai raccontato, il tuo uomo sembrerebbe un manipolatore seriale, uno che ha passato il tempo a razionalizzare i suoi istinti, fino a quando ha sentito l’urgenza di trasportare nella realtà le sue fantasie contorte. Il tipico passaggio all’atto di un soggetto psicopatico, e sai bene che gli omicidi in cui si reitera lo stesso modus operandi sono pianificati con cura maniacale».
«Sì, è che…».
«Devi penetrare nel suo mondo interiore, Cabodi. Devi comprendere cosa desidera e perché, stabilendo un punto di contatto. Il contatto, devi stare attento a quello», mi ammonisce Lamart. «È fondamentale stabilirlo, e non importa se per ottenere ciò si divaga o si perde tempo a parlare di altro».
Osservo il mio vecchio compagno di corso come si può osservare una specie di oracolo.
«Devi trovare il modo di riportare il nostro uomo sulla sua scena primaria, il trauma originario, e per farlo, lascia che parli di qualsiasi argomento, perché solo in quel momento potrai avere la possibilità di capire chi hai di fronte».
«Creare il clima favorevole, giusto?»
«Proprio così, se c’è un clima favorevole domande e risposte diventano pertinenti, Un clima teso non aiuta, anzi favorisce il contrasto, la contrapposizione. Tutti gli assassini hanno un movente, una logica profonda, qualcosa che ai loro occhi spiega e giustifica il gesto omicida. Entrare in sintonia significa far luce su queste ragioni oscure e profonde. Gli dai sollievo, lo fai sentire compreso, e a quel punto la confessione diventa una conseguenza naturale».
Annuisco, oscillando il capo in segno di assenso, come fa lo scolaro con il maestro. Poi parliamo del suo lavoro di consulente all’università, delle reciproche vicissitudini familiari, e apprendo che anche lui si è separato da sua moglie Francine; infine, prima di congedarci ci riproponiamo di trovarci per una cenetta, una di queste sere.
Mentre raggiungo il distretto, osservo le nuvole formare disegni imperscrutabili dagli oscuri significati. Zio Arthur saprebbe trarne efficaci vaticini.
Ripenso alle parole di Lamart, e mi chiedo quale disegno malvagio stia seguendo quel pazzo nella sua scia di sangue.
Al distretto mi accoglie l’agente che era venuto a prelevarmi all’aeroporto.
Mi saluta con la disinvoltura di un seminarista in un centro estetico, e ho la conferma che il suo eloquio è uguale a quello di un buttafuori ucraino in un locale notturno di Città del Messico.
Mi fa un cenno con le sopracciglia e ci dirigiamo verso l’ufficio del capitano.
Si ferma sull’uscio e, con un timbro di voce che ricorda l’orco dei cartoni animati, sentenzia: «Il capitano l’aspetta».
Saluto il mio cicerone ed entro senza sentire il dovere di bussare.
Il capitano Ferdinand è seduto alla scrivania. Al suo fianco, c’è una mora sulla trentina.
«L’aspettavo, tenente. Venga, si sieda».
Saluto a mia volta e raggiungo la scrivania. La mora mi schiocca un’occhiata fulminante che ricambio.
Mi faccio l’idea che attenda istruzioni per poi alzare i tacchi e salutare, ma vedo che è lei a darle, le istruzioni. Con l’indice della mano destra, la mora segue un percorso su una mappa ipotetica che immagino occupare lo schermo del computer di Ferdinand. Poi dice: «Questo è il tragitto seguito dagli spacciatori, capitano. Arriveranno al confine, e poi troveranno i compari per effettuare lo scambio».
Ferdinand annuisce.
«Noi seguiremo le loro tracce e ci faremo trovare proprio qui», prosegue, toccando con l’indice un punto sullo schermo.
Le osservo le unghie laccate di un color rosso porpora, risalgo dalle mani alle braccia e mi soffermo sul volto. Il rosato chiaro della pelle contrasta con quello rosa intenso delle labbra, e i grandi occhi neri che ora mi osservano trasmettono sincerità e forza d’animo.
Mi dico che in un mondo perfetto invece del solito troglodita ipertrofico, calvo e con un pronunciato fiato alcolico, che mi aspetto di veder spuntare dalla porta, ora Ferdinand mi presenterebbe la mora e direbbe: “Ecco l’agente che l’affiancherà nelle indagini”.
Sì, direbbe proprio così. Poi penso che quello che ruota intorno al Sole è qualcosa di ben lontano dalla perfezione.
«Ah, tenente Cabodi, le presento l’agente Amanda Perkins. L’affiancherà nelle indagini».
Tutto a un tratto mi riprende l’amore per l’umanità, ritiro all’istante le accuse al nostro amato pianeta e prometto al Grande Spirito di essere più prudente nei giudizi, d’ora in poi.
Io e l’agente Perkins ci avviciniamo e sovrapponiamo un reciproco salve a una formale stretta di mano.
La mia ispezione oculare non deve averla lasciata indifferente, perché percepisco in lei un leggero imbarazzo.
«Il capitano mi ha parlato del caso, tenente. Giorni fa ho letto le deposizioni del tempo, e pensare a un collegamento con i casi di Vancouver mi dà i brividi. Il pensiero di uno spietato assassino che si risveglia dopo anni di letargo e ricomincia a uccidere, ecco, lo ammetterà anche lei, è qualcosa di…».
«Di inquietante», mi affretto ad aggiungere.
«Sì, inquietante è appropriato, tenente».
In tutto questo tempo il capitano ha osservano me e l’agente Perkins con un’espressione fra il serio e l’imbronciato. Sembra qualcuno che aspetti di ricevere dall’umanità la dovuta attenzione, ma i due frammenti di umanità che lo circondano paiono essersi dimenticati di lui.
«Non sono un profiler», dice l’agente Perkins. «Ma i killer che rimangono, come dire, dormienti per anni, sono una gran brutta grana».
«Se i tre delitti sono opera della stessa mano», aggiungo, «al Cirque du Soleil potremmo trovare quello che non è stato cercato anni fa».
«Sono d’accordo. Quando si inizia?»
La mia risposta è anticipata dall’irruzione di Ferdinand.
Con aria infastidita, il capitano si schiarisce la gola, poi, con una certa gravità, si alza dalla sedia della scrivania, si avvicina alla porta, la apre e quando il mondo può finalmente riconoscergli l’attenzione dovuta, viene colto da un accesso di tosse che lo scuote violentemente, come un fantoccio colpito dai proiettili di gomma in un luna park.
Dopo un po’ si riprende e, d’istinto, si porta la mano ai capelli che non si sono scomposti di un millimetro.
Infine dice: «I due profiler della Mountain Police potrebbero avere una teoria diversa, agenti, ma sono sicuro che saprete collaborare con loro e riuscirete a scovare quel bastardo, dovunque si trovi. Non deludete le aspettative che io e il capitano Chan Lin riponiamo in voi, mi raccomando!», e stringe la mano destra in un pugno che agita in segno di incitamento.
Io e Perkins ci ritroviamo nel corridoio. Soli.
«Caffè?» chiedo.
«Buona idea».
Davanti alla macchina distributrice, ognuno dei due cerca di evitare lo sguardo dell’altro. Infilo le monetine, estraiamo i nostri caffè, e l’agente Perkins dice: «Beh, ci aspetta un’indagine niente male, tenente».
«Sì», non trovo di meglio da dire.
Perkins beve il caffè, e getta il bicchierino nel cestino. Poi si avvicina, mi porge la mano e dice: «Io sono Amanda».
Estratto da “Mimesi”, di Maurizio Fierro, romanzo pubblicato dalla casa editrice Scatole Parlanti nel novembre 2019
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QUARTA DI COPERTINA DEL LIBRO
Jack Cabodi è un tenente in forza al dipartimento di polizia di Vancouver. Cabodi è un Kwakiutl, nativi americani stanziati nel Central Okanagan. Un bacino di tradizioni e sapienza al quale, attraverso la guida dello zio Arthur, il tenente sa di poter attingere per ogni evenienza. Il suo intuito e la sua forza di volontà sono messi a dura prova dal caso che ha inorridito l’intero Canada: una scia di efferati omicidi che vede come vittime delle donne. L’autore è un killer che si ingegna a dare un aspetto raccapricciante alla scena del crimine.
Quando da Vancouver l’indagine del tenente si sposta a Montréal e l’ambiente circense del Cirque du Soleil diventa lo scenario che fa da sfondo all’investigazione, con l’ausilio dell’agente locale Amanda Perkins, la matassa inizia a sbrogliarsi, lasciando intravedere le prime tracce dell’incredibile filo conduttore che lega le violenze.
BIOGRAFIA
Maurizio Fierro è nato a Como, dove attualmente risiede. Laureato in Giurisprudenza, svolge le mansioni di Direttore Amministrativo in un Ente pubblico. La sua prima opera edita, il libro di racconti “La Vita Oltre il Ring, quindici storie di boxe che attraversano il Novecento”, è stato pubblicato nel 2017 da Scatole Parlanti. Per la stessa casa editrice nel 2019 è uscito il suo romanzo “Mimesi”. Diversi suoi racconti sono stati selezionati e inseriti in antologie, ha vinto il concorso letterario nazionale “Racconti Corsari” ed è finalista al concorso nazionale Aleroandronico, di prossima assegnazione. Scrive di sport su “Contrasti”, e di musica, cinema e cultura underground su “Magazzini Inesistenti”, entrambe riviste on line.