Il dramma di Welby e di Eluana ha imposto al legislatore la necessità di regolare una materia del tutto inedita nel panorama del nostro ordinamento giuridico. La "fine della vita" ripropone la complessità diel rapporto dialettico tra Etica e Diritto che verte sull'antico dilemma su come conciliare l'oggettività della norma giuridica con la soggettività della norma morale.
Nella Commissione Igiene e Sanità del Senato è da tempo iniziato l’esame degli otto disegni di legge sul cosiddetto testamento biologico,terminologia impropria, di fatto, secondo i senatori, i quali preferiscono le espressioni «consenso informato», «dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario», «direttive anticipate di fine vita» e così via. Il cammino della Commissione su questo tema è assai complesso non solo perché essa è impegnata a riprendere in mano i frutti del lavoro compiuto nella scorsa legislatura, ma soprattutto perché è chiamata ad approfondire un argomento da tutti giudicato molto delicato, dal momento che riguarda la vita e la morte dell’essere umano.
Ci proponiamo di esaminarli sinteticamente, cercando di mettere in risalto i problemi che vi sono sottesi.
Il significato dei termini usatiRiteniamo utile premettere una breve chiarificazione della terminologia usata sia nei disegni di legge in esame sia nel dibattito pubblico sui problemi riguardanti il termine della vita.
Eutanasia. Con questo termine si intende un’azione (eutanasia diretta o attiva) o un’omissione (eutanasia indiretta o passiva) che per natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. In proposito il Codice di deontologia approvato dall’Ordine dei medici il 16 dicembre 2006, confermando una norma che ha sempre accompagnato la professione medica, all’art. 17 afferma: «Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte». Dal punto di vista legislativo, in Italia l’eutanasia è considerata alla stregua di un omicidio volontario. Afferma infatti l’art 579 del codice penale sull’omicidio del consenziente: «Chiunque causi la morte di un uomo con il consenso di lui è punito con la reclusione da 6 a 15 anni». La stessa pena è prevista per il suicidio assistito; sanzioni penali sono previste dall’art. 580 del codice penale per l’istigazione e l’aiuto al suicidio. Per i credenti, poi, vale ancora quanto scriveva, ad esempio, il gesuita Giacomo Perico: «La vita è il primo valore [...]. Non esiste un valore più alto, in nome del quale possa essere chiesta la sua soppressione. Anche i casi in cui sembrerebbe esistere l’eccezione (vedi il caso dell’uccisione come estremo mezzo di legittima difesa) non sono in definitiva che espressioni dello stesso principio in quanto azione protettiva del medesimo valore della "vita". Se noi incrinassimo appena questa posizione di assolutezza e di intoccabilità, [...] saremmo all’assurdo che per voler “servire” la vita in maniera intensiva e completa, giungeremmo a sopprimerla, e passeremmo assai rapidamente alle forme di egoismo più spietato o alle metodiche più sbrigative di eugenetica soppressiva».
Con l’espressione dichiarazione anticipata di trattamento si intende — secondo l’art. 9 della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina, firmata a Oviedo il 4 aprile 1997 e resa esecutiva in Italia dalla Legge n. 145 del 28 marzo 2001, — «l’atto scritto con cui una persona decide sul trattamento sanitario e sull’uso del proprio corpo, o di parti di esso, incluse le disposizioni relative all’eventuale donazione del proprio corpo, di organi o tessuti a scopo di trapianto, ricerca o didattica, nei casi consentiti dalla legge, nonché alla modalità di sepoltura o all’assistenza religiosa». In altri termini, si tratta delle dichiarazioni redatte da una persona in grado di intendere e di volere per indicare al personale medico e sanitario i trattamenti a cui intende essere sottoposto in caso di malattia grave o terminale, qualora non sia più in possesso della capacità di intendere e di volere.
Il trattamento sanitario, sempre secondo la Convenzione di Oviedo, è ogni «trattamento praticato, con qualsiasi mezzo, per scopi connessi alla tutela della salute, a fini terapeutici, diagnostici, palliativi, nonché estetici, lontano sia da possibili forme di accanimento terapeutico, sia da forme surrettizie di eutanasia».
Il mandato in previsione dell’incapacità, formulato sempre da una persona in grado intendere e di volere, attribuisce al mandatario (curatore o fiduciario) il potere di compiere atti giuridici in nome e nell’interesse del rappresentato, in caso di sopravvenuta incapacità di quest’ultimo.
Il soggetto privo di capacità decisionale è colui che, anche temporaneamente, non è in grado di comprendere le informazioni di base circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze, e per questo motivo non può prendere decisioni che lo riguardano.
Il consenso informato. In applicazione del secondo comma dell’art. 32 della Costituzione: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», il nuovo Codice di deontologia medica prevede all’art. 33, a proposito di informazione, che «il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate. Il medico dovrà comunicare con il soggetto tenendo conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima partecipazione alle scelte decisionali e l’adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche. Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta. [...] Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza alla persona devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza. La documentata volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l'informazione deve essere rispettata».
Più specificamente, a proposito di consenso, l’art. 35 del Codice deontologico afferma che «il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l'acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente. [...] In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona».
Accanimento terapeutico</sup>. Ci si trova di fronte ad esso quando gli interventi attuati non sono più proporzionati alla condizione di malattia in cui si trova la persona. Tra i criteri utilizzati per la valutazione della condizione del paziente vi sono: il tipo di terapia, la proporzione tra mezzo e fine perseguito, il grado di difficoltà e il rischio, la possibilità di applicazione, le condizioni generali del malato (fisiche, psichiche, morali). Si tratta quindi di criteri di ordine oggettivo, come la natura dei mezzi, il loro costo, alcune considerazioni di giustizia nella loro applicazione e nelle scelte che essa implica; e di criteri di ordine soggettivo, come la necessità di evitare a un certo paziente traumi psicologici, situazioni di angoscia, disagi e così via. Se l’intervento viene giudicato una forma di accanimento terapeutico, esso può essere sospeso; ma vanno continuate le cure normali come il lenimento del dolore, l’alimentazione e l’idratazione. Non va quindi dimenticato, come mostra la casistica medica, che non è possibile stabilire una regola valida «meccanicamente» per tutti; la valutazione deve essere compiuta caso per caso, alla luce della conoscenza del malato, del suo decorso clinico e delle sue condizioni. Può accadere, infatti, di dover compiere una diversa valutazione di fronte a due malati affetti dalla stessa patologia.L’art. 16 del Codice deontologico afferma che «il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita».
I disegni di leggeIn attesa di poter valutare un probabile disegno di legge unificato — o, in caso di dissenso, due disegni di legge —, cerchiamo di mettere in evidenza gli elementi centrali, al di là delle specificità tecniche e giuridiche, degli otto disegni di legge presentati al Senato. Un primo elemento positivo che li accomuna tutti è l’obbligatorietà dell’informazione che deve essere fornita al paziente da parte del medico, per ottenere un consenso libero, prima di ogni trattamento sanitario. Esso già ora è richiesto in forza della Convenzione di Oviedo del 1997. Ma, poiché si tratta di una norma che richiede un profondo mutamento di mentalità, di fatto spesso è inapplicata, poiché la sua attuazione si riduce a un semplice atto burocratico. In realtà tutto ciò va a toccare in radice il rapporto medico- paziente che va realizzato meglio di quanto avvenga in molti casi, tenendo presente che, anche grazie ai notevoli progressi compiuti dalla ricerca in campo medico, in genere le conoscenze scientifiche della maggioranza dei cittadini sono molto inferiori al livello necessario per giungere a un «consenso davvero libero e informato». Perciò è benvenuto ogni intervento che faccia migliorare la situazione in tale settore. La comunicazione con il paziente — afferma, ad esempio, la relazione che accompagna il disegno di legge Baio (n. 285) — costituisce un momento essenziale del processo diagnostico-terapeutico, soprattutto quando si tratta di trasmettere informazioni di grande rilievo per la sua vita. Tutto ciò pone al medico nuove responsabilità anche sotto il profilo della qualità della comunicazione e richiede un adeguato processo di educazione alla salute, che coinvolga entrambi — medico e paziente — in una relazione che sia allo stesso tempo educativa e terapeutica e che pertanto rifletta un alto livello di tensione etica. In fondo la cultura del consenso informato dovrebbe inaugurare una nuova stagione: quella della decisione consensuale nella quale le conoscenze del medico e quelle del paziente cercano di avvicinarsi.
In sintesi la normativa sul consenso informato dovrebbe rispondere a tre esigenze: a) garantire il paziente nell’autonomia e nella libertà delle scelte, offrendogli tutti gli strumenti necessari per comprendere prima il problema e decidere poi nel miglior modo possibile circa ciò che riguarda la sua salute fisica e il suo benessere psicologico; b) garantire il medico contando sulla sua lealtà professionale, sull’alleanza terapeutica stabilita con il paziente, sulla sua consapevolezza che l’informazione data al paziente è parte integrante dell’intero processo terapeutico, sulla sua competenza specifica; c) garantire che l’intero processo diagnostico-terapeutico avvenga sempre nel pieno rispetto dell’autonomia del paziente e della competenza professionale di ogni professionista coinvolto; ognuno dovrà poter agire sempre in scienza e coscienza. Il consenso quindi va acquisito dopo aver fornito al paziente tutte le informazioni che il medico ritiene necessarie, rispondendo con pazienza e chiarezza a tutte le domande che il paziente potrà porgli, lasciandogli un tempo opportuno per comprenderle in profondità, per rielaborarle, confrontarle, verificarle e, se lo ritiene necessario, arricchirle con altre fonti di informazione. Il medico in ogni caso deve dosare la gradualità delle informazioni non solo in base al livello culturale del paziente, ma anche in base al tipo di personalità, abituandosi a riconoscere nel paziente la capacità di assorbire le cattive notizie. Su questo punto non dovrebbero sorgere difficoltà insormontabili in un futuro disegno di legge unificato.
Tutti i disegni di legge in esame — tranne il n. 285 (Baio e altri), che si occupa soprattutto del consenso informato — disciplinano le dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari, redatte per le ipotesi in cui il soggetto non potesse esprimerle in futuro a causa di una sopravvenuta perdita della capacità naturale o dell’impossibilità di comunicazione. Dei disegni di legge, sei su otto — gli altri due sono della senatrice Binetti e del senatore Tomassini — assegnano alla manifestazione di volontà del soggetto un carattere di assolutezza nei confronti del medico, il quale viene così ridotto a mero esecutore della decisione del paziente, decisione che può appunto essere messa per iscritto in anticipo rispetto a un’eventuale situazione di incapacità. Ad esempio, l’art. 12, n. 5, del disegno di legge presentato dal senatore Marino e altri afferma: «Le direttive contenute nella dichiarazione anticipata di trattamento sono impegnative per le scelte sanitarie del medico, il quale può disattenderle solo quando, sulla base del parere vincolante del comitato etico della struttura sanitaria, non sono più corrispondenti a quanto l’interessato aveva espressamente previsto al momento della redazione della dichiarazione anticipata di trattamento, sulla base degli sviluppi delle conoscenze scientifiche e terapeutiche, e indicando compiutamente le motivazioni della decisione nella cartella clinica». L’unico limite posto alla dichiarazione di volontà del paziente in questo disegno di legge, come in quello del senatore Massidda, è quindi la possibilità del medico di non rispettare la volontà del paziente nel caso siano mutate le conoscenze scientifiche rispetto al momento in cui essa fu manifestata. A noi, tuttavia, sembra insufficiente, per salvaguardare realmente il ruolo del medico, la norma dovrà prevedere anche la possibilità dell’obiezione di coscienza di fronte alle richieste del paziente: è il livello minimo di rispetto della professionalità del medico.
Inoltre, una tale impostazione, che presuppone come assoluta l’autodeterminazione del paziente, tanto che può rifiutare anche l’idratazione e l’alimentazione parenterale, ci sembra aprire la strada all’eutanasia passiva, poiché, al di là delle discussioni ideologiche, ci pare una norma di buon senso quella che ritiene che nessuno possa ordinare al medico di smettere di alimentarlo o di idratarlo. Soltanto una concezione del soggetto come monade assoluta, senza alcun tipo di relazionalità, può ispirare una tale decisione. Bene quindi fa il disegno di legge delle senatrici Binetti e Baio Dossi ad affermare all’art. 3, n. 2, che «l’idratazione e l’alimentazione parenterale non sono assimilate all’accanimento terapeutico e non possono essere oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento». É quanto afferma, in termini meno completi, anche il disegno di legge del senatore Tomassini all’art. 5: «L’idratazione e l’alimentazione parenterale non sono assimilate all’accanimento terapeutico».
Gli altri disegni di legge inoltre vorrebbero fondare l’affermazione dell’autodeterminazione assoluta del soggetto nel campo delle cure mediche sul dettato dell’art. 32, comma 2, della Costituzione, il quale afferma: «Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». Qui è certamente affermata la necessità del consenso del paziente nei confronti di un trattamento sanitario, ma non in maniera assoluta, giacché l’ultima parte del comma prevede la possibilità che la legge imponga un trattamento sanitario: quindi è possibile l’eventuale negazione al paziente della richiesta di rifiutare l’idratazione e l’alimentazione, richiesta che in questi disegni di legge si configurerebbe appunto come un diritto. D’altronde, il recente Codice deontologico medico, all’art. 17, vieta al medico di effettuare o favorire trattamenti finalizzati a provocare la morte del paziente, come — aggiungiamo noi — sarebbe il far morire di fame o di sete un malato.
In proposito, ricordiamo il testo approvato a maggioranza dal Comitato Nazionale per la Bioetica il 30 settembre 2005 su «L’alimentazione e l’idratazione di pazienti in stato vegetativo persistente». Con l’espressione «stato vegetativo persistente» (svp) (un tempo denominato «coma vigile») si indica — afferma il Comitato — «un quadro clinico (derivante da compromissione neurologica grave) caratterizzato da un apparente stato di vigilanza senza coscienza, con occhi aperti, frequenti movimenti afinalistici di masticazione, attività motoria degli arti limitata a riflessi di retrazione agli stimoli [...] Il problema bioetico centrale è costituito dallo stato di dipendenza dagli altri: si tratta di persone che per sopravvivere necessitano delle stesse cose di cui necessita ogni essere umano (acqua, cibo, riscaldamento, pulizia e movimento), ma che non sono in grado di provvedervi autonomamente, avendo bisogno di essere aiutate, sostenute e accudite in tutte le loro funzioni, anche le più elementari. Ciò che va rimarcato con forza è che le persone in svp non necessitano di norma di tecnologie sofisticate, costose e di difficile accesso; ciò di cui hanno bisogno, per vivere, è la cura, intesa non solo nel senso di terapia, ma anche e soprattutto di care: esse hanno il diritto di essere accudite. In questo senso si può dire che le persone in svp richiedono un’assistenza ad alto e a volte altissimo contenuto umano, ma a modesto contenuto tecnologico».
Il Comitato così conclude: «a) la vita umana va considerata un valore indisponibile, indipendentemente dal livello di salute, di percezione della qualità della vita, di autonomia o di capacità di intendere e di volere; b) qualsiasi distinzione tra vite degne e non degne di essere vissute è da considerarsi arbitraria, non potendo la dignità essere attribuita, in modo variabile, in base alle condizioni di esistenza; c) l’idratazione e la nutrizione di pazienti in svp vanno ordinariamente considerate alla stregua di un sostentamento vitale di base; d) la sospensione dell’idratazione e della nutrizione a carico di pazienti in svp è da considerare eticamente e giuridicamente lecita sulla base di parametri obiettivi e quando realizzi l’ipotesi di un autentico accanimento terapeutico; e) la predetta sospensione è da considerarsi eticamente e giuridicamente illecita tutte le volte che venga effettuata, non sulla base delle effettive esigenze della persona interessata, bensì sulla base della percezione che altri hanno della qualità della vita del paziente».
In ogni caso i disegni di legge concordano nel far decorrere l’efficacia vincolante della volontà del paziente dal momento in cui inizia lo stato di incapacità. In particolare due disegni di legge (nn. 10 e 51) prevedono che l’accertamento dello stato di incapacità spetti a un collegio di medici formato da un neurologo, uno psichiatra e un medico specializzato nella patologia di cui è affetto il paziente.
Molta prudenza ed estrema precisione nella fissazione delle caratteristiche esige la figura del fiduciario che eserciti i diritti al consenso o al rifiuto dei trattamenti sanitari, in caso di incapacità dell’interessato, sulla base delle volontà espresse nella dichiarazione anticipata di volontà.
A tal fine i disegni di legge 51 (Tommasini) e 483 (Massidda) prevedono che la dichiarazione sia redatta mediante atto pubblico notarile, mentre gli altri disegni di legge richiedono semplicemente la forma scritta. Si tratta di una nuova figura — almeno per quel che riguarda l’ampiezza delle competenze — finora non presente nell’ordinamento, che suscita però, in molti, ampi interrogativi.
NOTE
[1] I disegni di legge sono: n. 10 «Disposizioni in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari al fine di evitare l'accanimento terapeutico, nonché in materia di cure palliative e di terapia del dolore», presentato dai senatori del PD Ignazio Marino, Anna Finocchiaro, Luigi Zanda e altri; n. 51 «Disposizioni in materia di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario», presentato dai senatori del PdL Antonio Tommasini, Lucio Malan e Stefano De Lillo; n. 136 «Disposizioni in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari», presentato dai senatori del PD Donatella Poretti e Marco Perduca; n. 281 «Disposizioni in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari», presentato dalle senatrici del PD Anna Maria Cartoni e Franca Chiaromonte; n. 285 «Disposizioni in materia di consenso informato», presentato dai senatori del PD Paola Binetti, Emanuela Baio, Benedetto Adragna, Antonino Papania e Daniela Bosone; n. 483 «Norme a tutela della dignità e delle volontà del morente», presentato dal senatore della PdL Piergiorgio Massidda; n. 800 «Direttive anticipate di fine vita», presentato dai senatori del PD Adriano Musi, Luciana Sbarbati, Enzo Bianco, Claudio Micheloni; n. 972 «Disposizioni in materia di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di volontà», presentato dal senatore del PD Umberto Veronesi.
2 G. PERICO, «Il focomelico di Roma», in Aggiornamento Sociali 21 (1970) 591.
3 Una forma di «dichiarazione anticipata di trattamento» è il «testamento biologico», di cui è diventata fautrice, ad esempio, la Fondazione Umberto Veronesi. Esso si rifà al principio di autodeterminazione assoluta, in forza del quale un soggetto può prendere qualsiasi decisione egli voglia, senza alcun vincolo oggettivo, circa la propria fine della vita. Il testo della dichiarazione, nel passaggio centrale, afferma che «nel pieno delle mie facoltà mentali e in totale libertà di scelta dispongo quanto segue: in caso di malattia o lesione traumatica cerebrale irreversibile e invalidante; in caso di malattia che mi costringa a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione, chiedo di non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico». Dopo, segue la possibilità di nominare un rappresentante fiduciario, cfr. www.fondazioneveronesi.it
Il prof. Adriano Pessina, direttore del Centro di Bioetica dell'Università Cattolica, in merito alla promozione del cosiddetto testamento di vita (o biologico) proposto dal prof. Veronesi, ha espresso un giudizio assolutamente negativo, affermando, fra l'altro, che il testo reso noto, oltre ad essere generico e fuorviante, è gravemente lesivo della dignità della persona umana malata, il cui valore non dipende certo dal criterio di riferimento a una normale vita di relazione. «Il problema oggi non è quello dell'accanimento terapeutico [...], ma quello di un vero e proprio abbandono sociale e terapeutico delle persone. Abbandono che, insieme con l'eutanasia, sembra segnare una sorta di implicito rifiuto della persona malata, vista come un costo economico e un peso esistenziale. [...] Purtroppo questo documento conferma il sospetto di coloro che vedono nelle direttive anticipate la via breve per l'abbandono terapeutico e per l'eutanasia, espressioni di un rallentamento della solidarietà sociale e del vincolo morale che lega l'attività medica al bene della persona malata» (www3.unicatt.it/unicattolica/centriRicerca/Bioetica/Allegati/comunicato2.pdf).
4 Da parte cattolica, contro l<sup>'</sup>accanimento terapeutico si era dichiarato già Pio XII, seguito, fra i tanti, anche dal card. F. Seper, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il quale il 5 maggio 1980 affermò che, «nell'imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all'ammalato in simili casi» (www.bioeticacristiana.it/testi/congreg/Eutanasia2.htm).
5 Segnaliamo, per dovere di cronaca, che il Consiglio Superiore di Sanità, a cui era stato richiesto un parere sul caso di Piergiorgio Welby da parte del ministro della Salute, Livia Turco, dopo aver ascoltato il medico curante del sig. Welby, ha ritenuto, a larga maggioranza, che «il trattamento sostitutivo della funzione ventilatoria mediante ventilazione meccanica non configuri, allo stato attuale, il profilo dell'accanimento terapeutico» (corsivo nostro), aggiungendo di ritenere opportuna in tempi rapidi l<sup>'</sup>emanazione di «Linee guida di riferimento circa l'accanimento terapeutico».
6 Ad esempio i ddl n. 136: Poretti e Perduca, n. 800: Musi, e n. 972: Veronesi. Afferma l'art. 6 del disegno di legge del senatore Veronesi: «Ogni persona ha il diritto di redigere una dichiarazione, con atto datato e sottoscritto, ovvero con atto ricevuto da notaio o da avvocato, nella quale è espressa la propria volontà di essere o non essere sottoposto ad alcuna cura, indicando eventualmente quali terapie effettuare e quali non effettuare, incluse l<sup>'</sup>alimentazione e l’idratazione artificiale, in caso di malattia o lesione traumatica cerebrale irreversibile che costringa a un’esistenza vegetativa dipendente da apparecchiature o sistemi che impediscano una vita di relazione».