Come era prevedibile, il clima incandescente di questa campagna elettorale rischia di riportare pericolosamente all'indietro l'orologio della storia. Gli scontri di piazza degli ultimi giorni evocano immagini e ricordi di un'epoca che, forse frettolosamente, abbiamo derubricato a semplice parentesi di un percorso democratico che credevamo irreversibile: come dire, l'ennesimo “incidente della storia”. Evidentemente non è così. La sensazione è che nelle viscere della società italiana continua a bruciare una rabbia mai sopita che la politica ha colpevolmente ignorato, per insipienza o per convenienza.
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Come era prevedibile, il clima incandescente di questa campagna elettorale rischia di riportare pericolosamente all'indietro l'orologio della storia. Gli scontri di piazza degli ultimi giorni evocano immagini e ricordi di un'epoca che, forse frettolosamente, abbiamo derubricato a semplice parentesi di un percorso democratico che credevamo irreversibile: come dire, l'ennesimo “incidente della storia”. Evidentemente non è così. La sensazione è che nelle viscere della società italiana continua a bruciare una rabbia mai sopita che la politica ha colpevolmente ignorato, per insipienza o per convenienza. Il declino delle ideologie ha provocato l'illusione che il “sistema” fosse stato in grado di neutralizzare le inquietudini di una società attraversata da infinite contraddizioni. In realtà, tutte le ansie collettive erano state solo narcotizzate da uno Stato sociale dispensatore di prebende che, per decenni, ha rappresentato lo strumento di una classe politica che non ha mai avuto né il coraggio, né la statura per fare davvero i conti con il passato. I fatti degli ultimi giorni lo dimostrano. Tornare a parlare di fascismo e di comunismo può significare tante cose e non basterà certamente un editoriale per illustrarne ragioni e implicazioni. Non è un caso, tuttavia, che questi temi vengano riesumati per supplire al vuoto di una politica incapace di dare risposte alle sfide di un mondo dominato dall'entropia della finanza e dall'impotenza degli Stati. Dopo la caduta del comunismo, la sinistra italiana non è stata in grado di cogliere i segnali della crisi che, contestualmente, cominciava a corrodere le basi dello Stato sociale alle prese con un aumento abnorme della pressione fiscale e del debito pubblico. La sinistra italiana, come quella europea, non è stata in grado di interpretare e risolvere le problematiche sorte all'interno del mercato globale: i grandi flussi migratori, il terrorismo, le crescenti disuguaglianze. Circa 30 anni fa, Ralph Dahrendorf seppe preconizzare le difficoltà che avrebbero incontrato le democrazie avanzate le quali, per "quadrare il cerchio", sarebbero state obbligate a coniugare la creazione di ricchezza con la coesione sociale e le libertà politiche. Il disegno europeo, anziché aiutare gli stati a realizzare quella sintesi, ha finito per alimentare quelle povertà che hanno fatto riesplodere le antiche rabbie a cui le ideologie del passato avevano offerto una speranza e una prospettiva. A causa della latitanza della politica, quella rabbie sono tornate, oggi, a disputarsi il campo. Sarebbe il caso di ricordare che, per lunghi anni, abbiamo assistito ad una sinistra che, per essere fedele all'Europa, non ha esitato a sostenere un'austerità di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze. La campagna elettorale in corso dimostra l'afasia e le incertezze di una sinistra che ha smarrito completamente il proprio tradizionale campo semantico. La sinistra non ha più il coraggio di parlare di mafia, di legalità, di merito. La sua contiguità con l'establishment la costringe a rinunciare a qualunque azione di contrasto al capitalismo finanziario che continua, senza requie, ad escogitare nuovi strumenti (bitcoin, criptovalute) per irrorare l'economia di liquidità esponendola alle gravi incognite della speculazione. Da questa perdita di identità della sinistra nasce il ritorno in auge della destra. La risposta della destra alle sfide poste dalla globalizzazione, si può riassumere in ciò che ha scritto l'antropologo Arjun Appadurai: “La perdita di sovranità economica ha finito per rilanciare la sovranità culturale”. Da qui, il ritorno di quel nazionalismo che conduce Donald Trump a proclamare “America first”, e Vladimir Putin a sostenere, in modo sprezzante, che “la Russia non è l'Europa”. Anche volgendo lo sguardo sul nostro paese, si può constatare che il vero propellente della destra è rappresentato da un clima culturale che ritiene ormai inevitabile quello “scontro di civiltà” che le democrazie liberali tendono a negare. Nazionalismo, xenofobia, rifiuto del multiculturalismo: sono, questi, gli ingredienti di una destra che si candida a guidare il paese senza aver chiarito come intenda conciliare la propria vocazione anti-europea con la nostra adesione all'Ue e con i principi della Carta costituzionale. In questo senso, Berlusconi, Salvini e Meloni rappresentano tre destre dai tratti, spesso, incompatibili: vedremo quale di esse è destinata a prevalere.