Da qualche decennio il mercato globale sta provocando la lenta erosione della sovranità e delle basi democratiche degli Stati. Da un lato, Trump e la Brexit, dall'altro la vittoria di Macron (e, prevedibilmente, della Merkel), confermano che la Storia rischia di condurre le masse su un crinale, per nulla rassicurante, che finisce per limitare ogni scelta all'alternativa tra il ritorno ad un nazionalismo xenofobo oppure l'accettazione di un modello oligarchico e tecnocratico. Stiano attenti Renzi e Salvini a non farsi irretire da questo schema aberrante che rappresenta la vera causa dello stallo in cui versa il nostro paese.
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La vittoria di Matteo Salvini alle primarie della Lega ha costretto Umberto Bossi a porre sul tappeto la questione riguardante l'identità del partito. Per la prima volta dalla sua nascita, la Lega si trova davanti ad un bivio: accettare definitivamente la svolta nazionale e lepenista voluta dal suo giovane leader o rilanciare le antiche velleità secessioniste in nome dell'orgoglio padano. La sensazione è che, più che un problema identitario, si tratti di un definitivo regolamento di conti tra gruppi dirigenti e, se vogliamo, tra generazioni, visto che entrambe le opzioni consentirebbero, comunque, alla Lega di vantare un forte radicamento nelle regioni settentrionali del Paese. In proposito, i dati risultano inequivocabili: la svolta lepenista ha consentito a Matteo Salvini di recuperare i consensi perduti al Nord e, contestualmente, di rompere il paradigma di un partito regionale, localista e rabbiosamente revanscista nei confronti del Palazzo. Occorre, tuttavia, chiedersi se da questo travaglio tutto interno alla Lega possano sortire ripercussioni nella politica nazionale che, piaccia o no, resta l'ambito nel quale si giocano le partite che contano. Pertanto, fuor di metafora, la domanda che occorre porsi è la seguente: in quale misura la svolta identitaria della Lega può incidere sulle sorti del paese? Al netto di ogni altra questione interna che, come si diceva, potrà dispiegare i suoi effetti solo sul piano delle carriere personali, risulta evidente che, allo stato, la Lega non appare in grado di fornire una risposta plausibile alle grandi emergenze del paese: i rapporti con l'Europa, l'immigrazione, la disoccupazione e la sicurezza del cittadino. La verità è che, malgrado le apparenze, non sembra esserci alcuna reale cesura culturale tra la Lega di Bossi e la Lega di Salvini tra i quali permane un denominatore comune spesso sottaciuto: mentre la Lega di Bossi indulgeva, senza troppi lirismi, ad una fervida retorica antimeridionale, oggi il partito di Salvini ama ostentare una forte ostilità nei confronti degli immigrati. Come dire, è cambiato il lessico ma non è cambiata né la “cosmogonia”, né la grammatica politica di un partito da cui sarebbe lecito attendersi ben altro sul piano delle soluzioni ai problemi sopracitati. In questo senso, Matteo Salvini rischia di fare la stessa fine del suo grande avversario, Matteo Renzi. Si ponga mente agli ultimi accadimenti. Da qualche decennio, ormai, il mercato globale sta provocando la lenta erosione della sovranità e delle basi democratiche degli Stati. Da un lato, Trump e la Brexit, dall'altro la vittoria di Macron (e, prevedibilmente, della Merkel), confermano che la Storia rischia di condurre le masse su un crinale, per nulla rassicurante, che finisce per limitare ogni scelta all'alternativa tra due sole ipotesi: il ritorno ad un nazionalismo xenofobo oppure l'accettazione di un modello oligarchico e tecnocratico. Malgrado la loro diversità, l'impressione è che sia Renzi che Salvini si siano fatti irretire da questo schema aberrante che rappresenta la vera causa dello stallo in cui versa tuttora il nostro paese. Ad entrambi i leader sembra sfuggire la necessità di uscire quanto prima dalla logica perversa di quello schema che si fonda su un'alternativa che uccide la democrazia e ci rende più poveri.