Sono passati cinquant’anni dalle prime occupazioni universitarie che diedero il via al fenomeno della rivolta sessantottina. Il lungo tempo passato dovrebbe consentirci di guardare a quegli eventi con la pacatezza razionale dello storico, ma non è facile. Molte cose sono cambiate, molte idee in cui allora si era creduto probabilmente per le nuove generazioni sono quasi incomprensibili, eppure ancora oggi molti guardano con nostalgia o con timore, a secondo delle proprie ideologie, a quegli eventi che comunque hanno segnato nel profondo la storia del nostro Paese.
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Sono passati cinquant’anni dalle prime occupazioni universitarie che diedero il via al fenomeno della rivolta sessantottina. Il lungo tempo passato dovrebbe consentirci di guardare a quegli eventi con la pacatezza razionale dello storico, ma non è facile. Molte cose sono cambiate, molte idee in cui allora si era creduto probabilmente per le nuove generazioni sono quasi incomprensibili, eppure ancora oggi molti guardano con nostalgia o con timore, a secondo delle proprie ideologie, a quegli eventi che comunque hanno segnato nel profondo la storia del nostro Paese. E allora ricostruiamo i fatti storici cercando di capirne le cause, ricordando sempre, come diceva Benedetto Croce, che la riflessione sulla storia è un modo di capire e orientarsi nel presente. A Milano l’Università cattolica era un’istituzione in cui si erano formate le classi dirigenti cattoliche del paese, aveva due collegi (l’Augustinianum maschile e il Marianum femminile) frequentati da studenti fuori sede che per potervi accedere ed usufruire del presalario dovevano passare un duro esame di ammissione e ottenere alti voti in tutti gli esami. Eppure sono proprio loro ad animare la protesta quando l’Università decide di aumentare le tasse d’iscrizione, il 14 novembre 1967 gli studenti entrano in agitazione, il 17 novembre un’assemblea decide l’occupazione chiedendo il ritiro degli aumenti delle tasse, la pubblicità dei bilanci dell’Università e maggiore democrazia nell’ateneo. Nella notte interviene la polizia che per la prima volta irrompe nell’Università e la sgombera dagli studenti occupanti. Per dieci giorni l’Università è serrata, gli studenti organizzano manifestazioni di protesta, centocinquanta sono trasferiti in altre Università, ventotto sono espulsi dai collegi universitari. A Torino le autorità accademiche espressero l’intenzione di trasferire parte dell’Università nel parco della Mandria, lontano dal centro cittadino. Il 27 novembre 1967 per protesta gli studenti occupano il Palazzo Campana, sede delle facoltà umanistiche. Una delegazione invade il rettorato, dove è riunito il Senato accademico, interrompendo la riunione. I professori chiamano la polizia che porta via gli studenti, il giorno dopo l’Università è occupata, dando il via a gruppi di studio su argomenti allora estranei all’Università che diventeranno anni dopo corsi istituzionali. I fatti accaduti nelle due Università erano sconvolgenti per la mentalità dell’epoca, ma non erano nati improvvisamente dal nulla, era la manifestazione di un disagio sociale e di una nuova cultura e sensibilità che erano andate maturando nelle nuove generazione degli anni Sessanta. Lo sviluppo economico e il boom industriale degli anni Cinquanta avevano avviato un processo di modernizzazione che cozzava contro vecchie mentalità e strutture inadeguate. Negli anni Cinquanta dopo la scuola elementare i ceti benestanti iscrivevano i figli alla scuola media, da cui poi si passava al liceo e all’Università. I figli dei ceti meno abbienti o andavano subito a lavorare, oppure alla scuola di avviamento, con unico eventuale sbocco gli Istituti tecnici, per loro l’università era per sempre esclusa. Le classi dirigenti avevano operato dei miglioramenti, ma che non erano stati sufficienti. Nel 1961 era stato concesso ai diplomati degli Istituti Tecnici di iscriversi alle Università relative alle loro specializzazioni. Nel dicembre del 1962 era stata varata la scuola media unica, con le polemiche sull’abbandono del latino e lo scandalo “del figlio dell’operaio insieme al figlio del dottore”. La pressione sull’Università cresce progressivamente, nel 1956-57 gli studenti universitari erano 212.400, nel 1966-67 diventano 425.500, con 20.000 immatricolazioni in più rispetto all’anno precedente. Le strutture delle Università, concepite per un limitato numero di studenti fortemente selezionati socialmente, non reggono all’arrivo delle nuove generazioni. Le segreterie si ingolfano, le aule mancano o sono sovraffollate, i docenti sono in numero insufficiente, gli ordinari sono solo 3000, si pensi che nel 1923, quando gli studenti erano dieci volte di meno, erano 2.075. Inoltre spesso gli insegnamenti sono impartiti con una didattica autoritaria e con contenuti ormai superati dagli sviluppi di una nuova cultura che si respira nella società e nel mondo del lavoro in cui è in atto una rapida modernizzazione, con cambiamenti radicali nel modo di vivere e pensare. La rivolta, prima che politica, è uno scontro generazionale tra migliaia di giovani che premono su un mondo che non li comprende e che non sa accoglierli. La storia non si ripete mai allo stesso modo, i giovani di oggi non sono più, anche numericamente, una forza d’urto di massa, la situazione economica e culturale è radicalmente diverse, ma dobbiamo chiederci se la nostra società oggi fa il necessario per dare un futuro ai giovani. Ci deve far riflettere il fatto che in diverse Università si propone il numero chiuso alle iscrizioni, mentre molti giovani emigrano all’estero e tanti non studiano e non lavorano.