“Diciamo che il ’68 nel suo complesso ha fallito. È mancata l’immaginazione artistica; ma è mancata anche l’immaginazione politica a dargli impulso”. (Marco Bellocchio, 1972). Sintesi lucidissima in relazione ad una stagione ambigua e controversa che vede come più grande cantore, elegiaco e nostalgico, il regista Bernardo Bertolucci. Con Prima della Rivoluzione (1964) e The Dreamers (2003) apre e chiude il cerchio della riflessione cinematografica sul 1968.
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“Diciamo che il ’68 nel suo complesso ha fallito. È mancata l’immaginazione artistica; ma è mancata anche l’immaginazione politica a dargli impulso”. (Marco Bellocchio, 1972). Sintesi lucidissima in relazione ad una stagione ambigua e controversa che vede come più grande cantore, elegiaco e nostalgico, il regista Bernardo Bertolucci. Con Prima della Rivoluzione (1964) e The Dreamers (2003) apre e chiude il cerchio della riflessione cinematografica sul 1968. Nel mezzo, un percorso asimmetrico e apodittico in cui si dipanano gli sguardi morali e visionari di Antonioni, Pasolini, Fellini e Petri. Lo sguardo italiano sul ’68 è contraddittorio e scandaloso, figlio di un’esperienza internazionale in cui germina, ontologicamente, la negazione di ogni possibile libertà. Dall’altra parte dell’oceano lo testimoniano i finali crudeli e agghiaccianti – risolti in un bagno di sangue – di due allegorie western come Easy Rider (1969) e Soldato blu (1970). L’America e il suo super-genere - virato sul registro lisergico e allucinato - rivelano il disincanto e la tragedia che si nascondono dietro l’utopia. Il misconosciuto Fragole e sangue (1970) di Stuart Hagmann – che con Il rivoluzionario (1970) di Paul Williams e L’impossibilità di essere normale (1970) di Richard Rush costituisce una trilogia spietata sulla controcultura e l’altra America - mette in scena la cronaca di un fallimento, il presagio psichedelico di un desiderio destinato a rimanere tale a causa della fragilità morale e della pavidità congenita di un’intera generazione. Piccoli borghesi che giocano a fare i rivoluzionari ostentando immagini del Che e di Mao, tormentati da pulsioni ormonali post adolescenziali, la cui rabbia non scaturisce mai da principi ideali bensì da frustrazioni personali. La consapevolezza rivoluzionaria è solo questione di opportunismo erotico-sentimentale e la sua inconsistenza ideologica è dimostrata dal fatto che il rancore crescente è provocato da situazioni estemporanee. Stuart Hagmann racconta il ’68 come un gioco a cui i “bambini” che vi partecipano si ritrovano in qualcosa di più grande di loro; non diventano mai grandi nonostante l’aberrante massacro finale, ad opera della polizia, ritmato sulle note martellanti e ossessive di “Give peace a chance” di Lennon e Mc Cartney. Lo zootropio attorno a cui è costruita l’anima ludica del film è una giostra centrifuga che impedisce ogni movimento libero in un circolo vizioso di conformismo e resistenza al potere. Al di qua dell’oceano, nella dolce e placida Parma, Bertolucci con lungimiranza sarcastica apre Prima della Rivoluzione con una citazione di Talleyrand: “Chi non ha vissuto negli anni prima della rivoluzione non può capire che cosa sia la dolcezza del vivere”. Nel film il borghesuccio incestuoso (con la zia nevrotica – come nel programmatico Grazie zia (1968) di Salvatore Samperi) tenta l’approdo rivoluzionario tra velleità ribellistiche, riferimenti letterari, avvicinamento al Partito per poi cedere al conformismo di classe con il matrimonio con la donna scelta per lui dalla famiglia. Prima della Rivoluzione è uno dei film più perturbanti del cinema italiano nel suo profetizzare il sillogismo fallimentare del ’68; è disperato nell’ammissione di impotenza e sconfitta, lucido e inquietante nell’individuare le cause nell’incapacità di coerenza ideale e rivoluzionaria sia degli “allievi” che dei “maestri”. Quella del film è “una stagione all’inferno” in cui si consumano il trapasso doloroso e lancinante del mondo contadino e le fittizie speranze degli anni ’60. Michelangelo Antonioni in Zabriskie Point (1970) concentra la sua attenzione sulle istanze di base che si nascondono dietro il ’68. Quello di Mark e Daria è solo un Love-in in cui l’amore – con la ripopolazione orgiastica di Zabriskie Point - bypassa la morte riportando gli uomini ad una condizione primigenia. Antonioni indaga il potere e la sua reificazione attraverso gli oggetti costruendo una struttura ellittica che ruota sui centri gravitazionali della “cosificazione” della società e che prelude al deflagrante finale: solo la proiezione psicologica di un desiderio frustrato e represso impossibile da realizzarsi. Pier Paolo Pasolini diventa “il mostro da esorcizzare” a seguito della realizzazione di Teorema (1968) in cui evidenzia il collasso della borghesia schiacciata dal peso del suo stesso esercizio del potere di matrice illuminista. Negare l’identità della borghesia coincide col negare l’identità del proletariato sia sul piano storico che reale. Teorema rafforza l’assunto alla base de “Il PCI agli studenti” – la poesia eterodossa sugli scontri di Valle Giulia (1° Marzo 1968) che - ribaltando l’assunto ipocrita e opportunista del Movimento - ascrive la natura proletaria ai poliziotti e quella borghese agli studenti. Teorema certifica la destrutturazione familiare, la nemesi dell’illuminismo borghese, l’afasia emotivo-relazionale nel rapportarsi con ciò che la borghesia non controlla. Se Pasolini viene isolato e ostracizzato, Fellini e il suo cinema onirico-visionario-circense virano violentemente verso il nero con Toby Dammit (1968). Il suo universo si incupisce e si fa disperato attraverso l’incontro con il decadentismo romantico di Poe. Nello scrutare gli orizzonti dell’illusione si concentra sugli orrori del mondo dello spettacolo e mette in scena un’iperbole allucinata e pessimista destinata a sfociare in un epifania fantasmagorica. Il protagonista, relitto autodistruttivo, è un attore che giunge in Italia per partecipare al primo western cattolico: paparazzato come una diva, ossequiato da preti-produttori untuosi e acquiescenti finisce decapitato nel tentativo di attraversare un ponte crollato. La metafora felliniana è esacerbata e fulminante: una Roma repellente e grottesca, un futuro e una speranza crollate miseramente sotto il peso della speculazione edilizia, una vita bruciata in fretta nell’anonimato di una società che ha perso la sostanza del vivere, priva di ogni libertà e creatività. Proprio su quest’ultimo aspetto concentra la sua attenzione Un tranquillo posto di campagna (1968) di Elio Petri. Il più politico dei registi italiani riflette argutamente sulla dissoluzione dell’arte di matrice romantica nel mercato-industria, arrivando ad ipotizzare lo scambio commerciale tra arte e pornografia. Ribalta - attraverso una sequenza emblematica – uno dei principi di fondo del ’68: l’immaginazione al potere. Il pittore Leonardo Ferri, insofferente alla mercificazione della sua arte, ipotizza che il governo conceda gratuitamente a tutti il necessario per dipingere; poi durante una visione la sua ipotesi si concretizza: un prato verde dove tutti dipingono… ma sotto lo sguardo severo e intransigente dei carabinieri che vigilano sul contenuto di ogni quadro. Il cerchio è destinato a chiudersi con il rimpianto e la nostalgia per tutto ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Con The Dreamers Bertolucci costruisce un romanzo di formazione tra cinema, sesso e politica. Il primo è realmente una finestra sul mondo ma è anche schermo dei principi di libertà – le manifestazioni del 14 Febbraio 1968 a favore di Henry Langlois direttore della Cinémathèque Francaise destituito dall’allora Ministro della Cultura André Malraux. Il sesso è un gioco - ancora incestuoso – che ottunde la percezione attraverso una morbosità patologica e mortifera che impedisce ai protagonisti di crescere. La politica, una variante oltranzista del gioco del sesso da mettere in atto da parte di bambini viziati desiderosi di fare le comparse nel grande gioco della rivoluzione; profeticamente, così ammoniti dal padre: “Prima di cambiare il mondo bisogna rendersi conto di fare parte del mondo. Non si può restare fuori e guardare dentro”. Tra il rifiuto della violenza e la sua attuazione i giovani radical-chic parigini scelgono quest’ultima con il lancio delle molotov contro la Gendarmerie mentre i titoli di coda scorrono al contrario. Non può che far riflettere, quindi, che sul finire degli anni ’70 in un salotto borghese di Torino, durante i pasti, siedano allo stesso tavolo il padre Carlo, Ministro dell’Industria della Repubblica Italiana e il figlio Marco, militante della formazione terroristica Prima Linea.
Fabrizio Fogliato – Critico cinematografico e Storico del Cinema.
Articolo pubblicato il 25.02.2018 su L'Ordine, supplemento culturale de La Provincia