Risulta fuorviante continuare a bollare Donald Trump e Marine Le Pen, o Lega e 5 Stelle, come bieche forze populiste. Occorre, infatti, ammettere che l'antagonismo delle masse contro l'establishment e i poteri costituiti nasce solo da un brutale impoverimento che la politica ha colpevolmente sottovalutato se non, addirittura, ignorato. Il vero problema, pertanto, non è la deriva populista ma la democrazia alla deriva di cui il populismo rappresenta solo una conseguenza.
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Dopo la caduta del comunismo, nessuno avrebbe immaginato che un altro “spettro” si sarebbe aggirato minacciosamente nei cieli del mondo: il populismo. Il lessico della politica annette a questo termine una chiara accezione negativa omettendo di spiegare le cause di un fenomeno che rappresenta, sia chiaro, una grave patologia del paradigma democratico. Per capire che cos'è il populismo, è utile partire da una definizione “a contrario”, determinando ciò che non è: il populismo non è un'ideologia. Non lo è perchè non si propone di perseguire un progetto sociale, non ha alcuna vocazione escatologica, non cova alcun proposito di creare l' “homo novus”. Il populismo, quindi, è solo una tecnica di esercizio del potere che si affaccia nella storia ogni volta che il popolo vede i propri diritti calpestati. Appellarsi al popolo significa, di fatto, rendergli giustizia restituendo alla politica la purezza violata. Parlare a nome del popolo implica, quindi, una mistica secondo cui il popolo è l'unico depositario della Verità. Il populismo conduce, naturaliter, alla delegittimazione della democrazia rappresentativa perché l’appello alla volontà popolare non può tollerare la mediazione di corpi intermedi, cioè di partiti e sindacati. Chi parla a nome del popolo, lo fa restandovi a stretto contatto. Cambiano i soggetti della dialettica politica: la competizione non è più tra partiti politici ma tra onesti e corrotti, tra “noi” e “loro”. Da qui, il sorgere di quell'antipolitica che addita i partiti come soggetti deviati di una democrazia deviata. E da qui, l'avvento del grande leader carismatico che, nel suo dionisiaco bagno di folla, suole proclamarsi unico interprete dei desideri del popolo che solo lui sa ascoltare e capire. Come mai in Occidente siamo arrivati a questa sorta di psicodramma collettivo? Partiamo da una verità difficilmente confutabile: il mercato globale ha eroso la sovranità degli Stati a cui è stata sottratta la possibilità di incidere nei grandi processi economici del pianeta. Davanti alla globalizzazione, la risposta delle classi dominanti è stata quella di conferire pieni poteri ad una tecnocrazia che si è limitata a proteggere gli interessi dei propri mandanti. In quest'ottica, lo Stato sociale è diventato un costo da abbattere: sono saltati i sistemi di protezione sociale, sono state progressivamente eliminate le tutele delle fasce deboli. Questo attacco dissennato ai diritti sociali ha condotto i cittadini a ritenere la democrazia dei partiti un sistema subalterno ai grandi interessi e alle “forze retrosceniche” (L.Canfora) che tirano le fila di un capitalismo finanziario che ha vanificato, perfino, il voto del cittadino. Col tempo, abbiamo assistito ad un'oscura osmosi tra partiti e potentati economici che ha contribuito, non poco, ad alimentare la retorica populista. Nasce anche da questo la rivolta dei ceti medi contro le élite e l'irruzione delle masse sulla scena politica. Non basta, pertanto, bollare Donald Trump e Marine Le Pen, o Lega e 5 Stelle, come bieche forze populiste. Occorre, infatti, ammettere che l'antagonismo delle masse contro l'establishment nasce solo da un brutale impoverimento che la politica ha colpevolmente sottovalutato se non, addirittura, ignorato. Il vero problema, pertanto, non è la deriva populista ma la democrazia alla deriva di cui il populismo rappresenta solo una conseguenza.