Il rifiuto della politica, da parte dei giovani, rappresenta il tentativo di restituire alla “società tradita” la centralità confiscatale dall'economia e dalla politica. In questo senso, la cosiddetta “antipolitica” rappresenta, sia pure candidamente, la mitizzazione della società civile che, dopo decenni di apatia, ritrova il coraggio di rivoltarsi contro le élite e contro una concezione privatistica del potere che dispensa privilegi prescindendo dal merito. Piaccia o no, dopo anni di emarginazione, le masse sembrano avere ripreso il loro cammino. Spetta, ora, alla politica indicare un percorso. Sempre che ne sia ancora capace.
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La fine delle ideologie e il contestuale avvento del mercato globale hanno condotto l'opinione pubblica occidentale a baloccarsi nell'illusione di essere alla vigilia di un'epoca di grande prosperità. Abbacinate dal mito mercatista, le élite culturali hanno creduto che la “fine della storia” avrebbe decretato anche la fine della lotta di classe da cui sarebbe sortita la definitiva consacrazione dei valori liberali. Nell'ultimo ventennio abbiamo assistito alla favola del “turbocapitalismo” che avrebbe favorito l'espansione dei ceti medi grazie alle virtù salvifiche del libero mercato. Così non è stato. Col giusto disincanto, nel corso degli anni abbiamo scoperto che la globalizzazione costituiva, in realtà, un detonatore micidiale che aveva la capacità di frantumare tutte le categorie del pensiero classico. Come un prisma, il mercato globale proiettava sul campo non più soggetti sociali dal chiaro profilo identitario ma una miriade di figure del tutto inedite, scomposte e incoerenti, che rendevano incomprensibili i processi di trasformazione del capitalismo e della vita dei cittadini. Da questo universo magmatico è emersa, sempre più nitidamente, la contraddizione più macroscopica e, se vogliamo, più imprevedibile e inattesa: quella rappresentata dai giovani. In modo del tutto paradossale, il mercato globale ha reso i giovani protagonisti assoluti nella comunicazione planetaria collocandoli, nel contempo, ai margini del sistema produttivo: tutto ciò, nella totale indifferenza della politica. Qualche anno fa, Claudio Napoleoni scrisse che non bisognerebbe mai dimenticare che, tra politica ed economia, si situa un terzo elemento che risulta vitale per entrambe: la società. Sarebbe utile ripartire da questo per capire perchè i giovani rappresentano, meglio di chiunque altro, questa “società tradita” che politica ed economia continuano ad ignorare. Bisogna ammettere che, malgrado abbiano una percezione “domestica” del mondo, i giovani risultano, beffardamente, i soggetti più funestati dalla barbarie globale. Rispetto alle generazioni precedenti, oggi i ragazzi amano viaggiare, conoscere le lingue, fare esperienze di lavoro in paesi diversi, coltivare col web rapporti con persone residenti in emisferi lontani. Tutto questo ha contribuito a renderli diversi dai loro padri con i quali si è aperta una faglia che ha finito per determinare un singolare conflitto generazionale. Sarebbe, tuttavia, riduttivo imputare questo fenomeno ad un mercato del lavoro sempre meno inclusivo. Con un po' di enfasi, potremmo dire che siamo davanti ad una nuova irruzione delle masse nella Storia che sarebbe semplicistico liquidare come “populismo”. C'è ben altro. Il rifiuto della politica, da parte dei ragazzi, rappresenta, infatti, il tentativo di restituire alla “società tradita” la centralità confiscatale dall'economia e dalla politica. In questo senso, la cosiddetta “antipolitica” rappresenta, sia pure candidamente, la mitizzazione della società civile che, dopo decenni di apatia, ritrova il coraggio di rivoltarsi contro le élite e contro una concezione privatistica del potere che dispensa privilegi prescindendo dal merito. Piaccia o no, dopo anni di emarginazione, le masse sembrano avere ripreso il loro cammino. Spetta, ora, alla politica indicare un percorso. Sempre che ne sia ancora capace.