Erano gli anni Settanta, e il loro mistero buffo rappresentava una leggenda metropolitana. Nessuno sapeva bene chi fossero quei geniali burloni che, prendendo amabilmente in giro l’umano mondo, si permettevano di scherzare in modo pesante su temi quali la misoginia, la diversità sessuale, il razzismo, fottendosene del “politically correct” che, a quei tempi, era lontano da essere la zavorra falsamente ecumenica che è diventata oggi.
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In macchina, si mimetizzava fra tutte le altre musicassette.
Poteva essere una Ampex, o una Memorex, oppure una Sony o una Maxwell ma, di sicuro, non ci trovavi impresso col pennarello, che so, P.F.M, oppure Emerson Lake & Palmer. No, quella aveva la copertina anonima e solo pochi eletti, oltre al proprietario, ne conoscevano il contenuto.
Fra questi eletti non potevano comparire rappresentanti del genere femminile.
Insomma, se rimorchiavi qualche ragazza, di certo non ti sognavi di inserirla nell’autoradio estraibile della tua Citroen due cavalli, o della tua Renault 5, o di qualunque autovettura il destino ti avesse riservato.
E se per colmo di sfiga invece lo facevi, perché eri in tilt, distratto dalle gambe della tipa accanto, diamole un nome, e chiamiamola Monica, per te era finita.
Non solo eri sicuro di andare in bianco, quella sera, ma lei, Monica, non l’avresti più rivista.
“Ma cosa dicono quelli lì? Come fanno a piacerti quelle cose?”, ti avrebbe chiesto guardandoti inorridita.
E tu, rosso in viso come un alcolizzato, avevi voglia di spiegarle che la cassetta non era tua, che era di qualche tuo amico che se l’era dimenticata, che tu quelli li avrai ascoltati si e no un paio di volte e che poi, nemmeno ti piacciono, e che sono cafoni e tutto il resto.
No, caro mio, Monica te l’eri giocata per sempre.
E quando, dopo una serata di reciproci imbarazzi, l’avresti accompagnata a casa, e vista scendere dalla tua automobile dopo un ciao frettoloso, e poi allontanarsi quasi correndo verso il portone d’ingresso, in cuor tuo sapevi già che Monica si sarebbe negata al telefono per i successivi 200 anni.
E allora ti veniva voglia di prenderla, quella cassetta, tirare giù il finestrino e lanciarla in strada.
E invece.
Niente, come illuminato da un raggio di saggezza proveniente da chissà dove,
la inserivi nel mangianastri della tua Citroen due cavalli, o della tua Renault 5, o di qualunque autovettura il destino ti avesse riservato.
“Avvisiamo che questo 33 giri è a bassissimo costo di energia, ed è quindi un long playng ecologico”, sentivi dire da una voce asettica, e già cominciavi a cambiare umore.
Quando poi la stessa voce affermava “nella tranquillità di questa città, vorrei declamare alcuni suoi versi”, a cui seguivano ben altri versi, cominciavi a ridere, fino a quando ti facevano male i muscoli addominali, e dovevi stare attento a non andare fuori strada, e Monica già te l’eri dimenticata
Era quello il momento in cui intuivi che, dietro a quei versi, a quelle battute nonsense, a quelle gag stralunate, si nascondeva una filosofia che ti avrebbe accompagnato per tutta la vita. Una vita con gli Squallor.
Erano gli anni Settanta, e il loro mistero buffo rappresentava una leggenda metropolitana. Nessuno sapeva bene chi fossero quei geniali burloni che, prendendo amabilmente in giro l’umano mondo, si permettevano di scherzare in modo pesante su temi quali la misoginia, la diversità sessuale, il razzismo, fottendosene del “politically correct” che, a quei tempi, era lontano da essere la zavorra falsamente ecumenica che è diventata oggi.
Preti e politici, attori e cantanti, soprattutto il genere “cantautorale”, femministe, ecologisti e omosessuali, nessuno sfuggiva al trattamento alla soda caustica del loro umorismo urticante, sempre a rischio di censura. Ma a loro poco importava, anche se la CGD incaricava sempre un avvocato di fiducia di vagliarne i testi, per paure di denunce e querele.
Sei adulto, ora. Sei passato dagli Ottanta vestito da fighetto e ti ritrovi nei Novanta sposato e in attesa del primogenito. Ti trovi in ospedale. Copri a grandi passi la lunghezza del corridoio in attesa di sapere se tua moglie ti regalerà un pargolo o una femminuccia.
L’attesa ti snerva, ma poi vedi quei due medici confabulare tra di loro e bam!
Allora immagini di trovarti al Crosta Center Hospital, e ti chiedi chi dei due sia il professor Don Gnocca, con la sua Equipe 84, quello che dopo un disastro in sala operatoria era andato a operare a Forcelle. (“Crosta Center Hospital”, dall’album “Cappelle”). E allora ti distrai, ti rilassi, e devi stare attento a non scoppiare a ridere, perché non è il momento adatto, proprio no.
Chi potevano mai essere quei tizi che farneticavano, sproloquiavano, e che davano l’impressione di divertirsi come matti ridendo delle loro stesse battute?
Chi erano i mattacchioni che, dopo una giornata di lavoro, si ritrovano di sera, in via Quintiliano 40, sede della CGD, l’allora potentissima Compagnia Generale del Disco, dove quasi per caso nacque il loro primo 45 giri, “38 luglio”, uscito nel 1971, che, dopo essere stato testato con successo ma in forma anonima al “Charlie Marx”, una famosa discoteca milanese, piacque a Peppino Giannini, direttore generale per l’estero della CBS, tanto da venire pubblicato nella linea CBS Sugar?
Nessuno lo sapeva con precisione, e il loro status di gruppo fantasma contribuiva ad alimentarne il mito, anche se qualcuno sussurrava che fossero dei pezzi grossi del mondo discografico e che avessero scritto decine di testi per i cantanti più famosi dell’epoca.
Ascoltandoli, si parlò per la prima volta di stile “demenziale”. Uno stile che, in seguito, avrebbe influenzato e fatto le fortune di altri gruppi sui generis come gli Skiantos ed Elio e Le Storie Tese.
Sei a casa. Hai varcato il terzo millennio da un bel po’ e, come un acrobata, stai cercando di tenerti in equilibrio sul filo sottile dell’esistenza. Tuo figlio - ebbene sì, era un pargolo - è in vacanza. Squilla il telefono, rispondi: è lui. Ha finito i soldi, te ne chiede altri, ti irrita il suo tono di voce, gli urli “Pierpaolo, cazzo, non cambi mai!”. Lui ti risponde che si chiama Alberto, e che questo Pierpaolo non lo conosce, che ti sta venendo l’arteriosclerosi e la memoria ti sta abbandonando, e tu non sai cosa rispondere, e farfugli qualcosa, e gli dici okay, per i soldi, poi lo saluti frettolosamente, perché stai pensando a lui, a quel Pierpaolo, e allora appena chiusa la telefonata con Alberto ti ripeti: ”Pronto, casa Cardani Bovini Ratti Falli Curlo, c’è sempre il mio papà? O se n’è andato via?” (“Torna Pierpaolo”, da “Le Perle degli Squallor”), e ridi, ricordando quella voce storpiata con l’harmonizer.
Grazie a quegli eterni bambini nel tempo imparammo a dialogare con i nostri amici utilizzando il loro slang maccheronico, quell’inglese masticato e risputato in salsa napoletana, quel francese che così ben si prestava alle più grevi e sboccate allusioni, per di più impreziosito da erre mosce a profusione.
Fu quasi l’invenzione di una lingua alternativa, fra il visionario e lo scurrile, un linguaggio antiborghese che rappresentava una sorta di rito liberatorio, avanguardia anarchica e stralunata che anticipava molti linguaggi a venire, specie quelli delle radio libere. E non fu un caso che sul retro del loro quinto lp “Cappelle” ci fosse scritto: “Si ringraziano i governi che hanno finanziato questa operazione, e che per questioni fiscali non possiamo menzionare. Non ringraziamo la Televisione, alla quale non dobbiamo niente. Si ringraziano invece le radio libere e i disk-jockey, ai quali è dedicato questo disco”.
Si era nel 1978, le radio libere erano in pieno boom, e quella modalità di parlare a braccio, in modo libero, creò un’immediata simbiosi fra gli Squallor e i disk-jockey che trasmettevano Radio Pompa (“Pompa”, dall’album “Pompa”).
Ti trovi in chiesa. Il parroco ti ha chiesto di confessarti. Con gli amici ci hai scherzato un po’ su. Loro ti hanno preso in giro, ma domani devi accompagnare la tua secondogenita all’altare, e allora hai acconsentito. A volte tocca.
E ora che sei qui, davanti al confessionale, qualcosa, dentro di te, si anima di vita propria, e allora senti una voce, e quella voce dice: “Biglietti, biglietti, ma cos’è questo confessionale? Vieni un po’ più vicino, vieni un po’ più vicino… ti do per penitenza tre Ave Maria, e dille prima della confessione, poi prendi un Alka Selzer” (da “La Novia”, album “Scoraggiando”)
Prendevano a schiaffoni il volto flaccido del perbenismo dell’epoca, gli Squallor. Erano la coscienza sporca del Paese, qualcosa di sordido, che doveva essere nascosto, e che si ascoltava come in una sorta di rito carbonaro. Dissacratori, poeti naif del turpiloquio, quei satiri sboccati raccontavano la società ma lo facevano a loro modo, scombussolando l’ordine stabilito in una tensione in costante disallineamento rispetto a convenzioni e liturgie comunemente accettate. Su basi musicali originali arrangiate in precedenza, nello studio di registrazione partiva una gara dell’improvvisazione stimolata dall’amicizia, dal sentire comune, da una filosofia di vita condivisa. Sceglievano gli argomenti, miravano gli obiettivi, e partiva il divertissement.
E intanto la tua vita va avanti, e loro, sempre lì. Invisibili, ma presenti.
Poteva essere al funerale di quel tuo lontano parente, quando, accodandoti al gruppo di persone che seguiva il feretro, ti guardavi intorno e cercavi Donna Summer, Giorgio Moroder, i fratelli La Bionda, Guccini, De Gregori e tutti gli altri, (“Tutto il morto minuto per minuto”, album “Tromba”).
Oppure mentre alla televisione davano uno di quei talk show, e tu recriminavi per le tasse, e loro approvavano: “Paga l’iva, paga l’iva, e io non la pagavo” (da “Carceri d’oro”, album “Cielo Duro”).
O magari durante l’elezione del Papa, quando ti aspettavi che dal Conclave saltasse fuori il religioso col nome giusto, quello che, affacciandosi da San Pietro, dicesse: “Nuntio vobis, minimum gaudium, habemum Pàpum! ... Cardinale Vincenzo Esposito, che si imposit il nomeum di... Gennarino Primo” (“Gennarino Primo”, dall’album “Tromba”).
Sei invecchiato.
Ti ritrovi a sorridere pensando che, prima o poi, qualcuno siederà accanto alla tua salma.
Ti piacerebbe che quel qualcuno si lamentasse chiedendoti: ”Papè pecché si mmuort? Papè pecché si mmuort? Papè pecché si mmuort” (“Tombeado” dall’album “Mutando”)
E mentre ripensi alla tua vita con loro, ti dici che sarebbe bello avere a disposizione una Macchina del tempo.
Sì, perché adesso che finalmente sai, vorresti tornare indietro.
E allora immagini di incontrarlo, quel ragazzo che eri.
Dove lo avevamo lasciato?
Era nella sua automobile, e stava ascoltando una musicassetta, ricordate?
Eccolo, ora lo puoi vedere. È arrivato a casa. Estrae la cassetta e la ripone religiosamente nel portaoggetti, sul lato del passeggero. Poi prende l’autoradio, scende dalla macchina e si avvia verso casa. Un sorriso illumina il suo volto.
Immagini di farti avanti, di sorridere a tua volta e di dirgli: “Vuoi sapere chi erano gli Squallor?”.
Daniele Pace (Milano, 20 aprile 1935 – Milano, 24 ottobre 1985)
Compositore, produttore discografico, cantante e paroliere, scrisse (spesso con Mario Panzeri e Lorenzo Pilat), i testi di numerosi successi dell’epoca: da “Nessuno mi può giudicare” a “La pioggia”, da “Finché la barca va” a “Sarà perché ti amo”, da “Io tu e le rose” a “E la luna bussò”. Personalità affascinante e dal tratto aristocratico, divenne un potente dirigente della CGD di Ladislao Sugar.
Nel 1979 Pace incise anche un disco solista, intitolato “Vitamina C”.
Morì prematuramente per un attacco cardiaco a soli 50 anni.
Giancarlo Bigazzi (Firenze, 5 settembre 1940 – Viareggio, 19 gennaio 2012)
Nome d’arte “Katamar”, produttore, compositore e paroliere, fu uno dei geni riconosciuti della canzone italiana. Uomo colto, burbero e schivo, visse sempre all’ombra del successo dei grandi cantanti con cui collaborò, da Massimo Ranieri a Raf, passando per Ornella Vanoni e Unberto Tozzi. Scrisse e compose alcune delle più famose canzoni degli ultimi 50 anni, da “Rose rosse” a “Montagne verdi”, da “Lisa dagli occhi blu” a “Self control”, da “Gloria” a “Gli altri siamo noi”, fino alla colonna sonora del film “Mediterraneo” di Gabriele Salvatores, premio con l’Oscar nel 1992.
Gaetano Totò Savio (Napoli, 18 novembre 1937 – Roma, 25 luglio 2004)
Per tutti “il Maestro”, grande direttore d’orchestra, compositore, autore e produttore artistico, firmò tutte le musiche dei brani degli Squallor nonché di alcuni dei più grandi successi della musica italiana quali “Cuore Matto”, “Erba di casa mia”, “Maledetta primavera”. Fu l’unico affermato musicista del gruppo, e fungeva da direttore d’orchestra nello studio di registrazione, Con Franco Califano, o con l’inseparabile amico paroliere Giancarlo Bigazzi, marchiò in modo indelebile un’epoca della canzone popolare italiana. Da Massimo Ranieri a Little Tony, sono molti i cantanti che devono alle musiche di Totò Savio il proprio successo discografico. Nel 1989 un episodio di malasanità lo minerà indelebilmente nel fisico conducendolo alla morte dopo anni di sofferenze.
Alfredo Cerruti (Napoli, 28 giugno 1942)
Unico componente del gruppo ancora in vita, fu produttore discografico, autore televisivo e attore. Trapiantato da Napoli a Milano, dopo essere stato l’autista di Gino Paoli divenne produttore discografico e Direttore artistico della CGD e della Ricordi. Improvvisatore geniale, fu la mitica voce narrante degli Squallor, rappresentando al meglio l’anima goliardica del gruppo. Le sue battute folgoranti, spesso in coppia con Daniele Pace, divennero degli autentici tormentoni. Rimase celebre la sua relazione con Mina.
Elio Gariboldi (Brugherio MI, 8 maggio 1944, - Monaco di Baviera, 2010)
Produttore discografico, prima alla CGD, poi a lungo in Germania come editore della Sugar Music, partecipò solo alla nascita degli Squallor, uscendo dal gruppo nel 1972 e non facendovi mai parte dal punto di vista artistico.
E ora?
Ora che loro non ci sono più, a 23 anni dal loro ultimo 33 giri?
Ora che finalmente non nascondi più quelle cassette anonime ma hai tutti i 14 lp bene in vista, con quelle copertine allusive quasi tutte realizzate dall’art director Luciano Tallarini?
Ora, hai compreso che la tua vita con gli Squallor è stata un antidoto alla pesantezza, al prendersi troppo sul serio, al conformismo più triste, al presenzialismo narcisistico, e non ti resta che ringraziarli, quei geniali mistificatori.
Ringraziarli per averti reso l’esistenza più sopportabile.
Ringraziarli perché il loro gusto per lo sberleffo, anche greve, vagheggiava un’età adolescenziale che era un po’ un’età dell’innocenza da cui è difficile affrancarsi, e da cui, in definitiva, è opportuno non affrancarsi mai del tutto.
E adesso che questa storia sta finendo, mentre nella tua mente scorrono le istantanee della tua vita, pensi a quello che direbbe lui, Alfredo Cerruti, e a quello che direbbero tutti insieme, se fossero ancora in quello studio di registrazione milanese: “Era meglio quando c’erano gli Squallor”.
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