Venticinque anni dopo Tangentopoli, occorre prendere atto che corruzione e malaffare hanno continuato ad attraversare la società italiana. L'inchiesta sulla Consip dimostra che serve una seria riflessione sulla crisi dei partiti che restano il nerbo e il pilastro di una democrazia. Piaccia o no, i partiti sono un male necessario perchè, senza di essi, il paese rischia di essere alla mercè di predatori e magliari. La differenza tra oggi e la Prima Repubblica si può sintetizzare in questa celebre battuta di Enzo Biagi: anche i vecchi politici mangiavano ma sapevano stare a tavola.
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L'inchiesta sulla Consip rischia di scatenare sulla politica italiana una nuova tempesta giudiziaria che non lascia presagire nulla di buono. Esattamente venticinque anni fa, Tangentopoli rappresentò per l'opinione pubblica la fine di una stagione di cui nessuno osava immaginare il grado di corruttela. Le inchieste giudiziarie spazzarono via una parte significativa del vecchio notabilato democristiano e socialista, per decenni rimasto saldamente al potere grazie alla inagibilitá politica del Pci derivante dalla sua vocazione filosovietica. I comunisti si salvarono dalle inchieste per svariati motivi sui quali non è mai stato possibile fare piena luce anche a causa della vulgata berlusconiana che, in modo assordante, non esitò a porre in stato d'accusa l'intera magistratura alla quale venne imputata una certa benevolenza nei confronti degli eredi del vecchio partito comunista. La realtà delle inchieste, di contro, evidenziò una spiccata impenetrabilità dell'apparato comunista all'interno del quale non mancò chi, onorando la mistica del "Partito", non esitò ad immolarsi accollandosi ogni responsabilità per le tangenti riscosse (su tutti, il “compagno G”, Primo Greganti). Invero, fu questa singolare cultura omertosa a salvare dalle inchieste il Partito comunista. A differenza degli altri partiti, emerse una straordinaria, tetragona inaccessibilità alle segrete cose del partito il quale, oltre al finanziamento illecito, per lungo tempo continuò a beneficiare del polmone finanziario sovietico: tutto ciò, malgrado lo “strappo” da Mosca, più volte magnificato dalla dirigenza e dalla stampa amica con l'intento di conseguire una piena e definitiva legittimazione democratica. A lasciare indenne il Pci dalle inchieste non fu, pertanto, né la "diversità" fieramente proclamata dai militanti comunisti, nè l'oscuro disegno delle procure, come il Cavaliere ha continuato, imperterrito, a baccagliare fino ai nostri giorni. Tutto questo fa parte, ormai, dei libri di storia. Resta il fatto che, al di là di ogni possibile interpretazione, il dibattito pubblico non ha mai fatto nulla per capire le origini di tutti i fenomeni corruttivi che le inchieste avevano disvelato. Come un fiume carsico, corruzione e illegalità continuarono, infatti, ad attraversare la società italiana in tutte le sue infinite articolazioni. Da questo punto di vista, dopo Tangentopoli cambiò ben poco, sia nell'apparato pubblico che nell'universo delle grandi imprese. La grande colpa del Cavaliere è quella di essere stato percepito, a torto o a ragione, come l'interprete di un certo modo di fare impresa, spregiudicato e sempre al limite della legalità, e come il garante di un costume cronicamente refrattario al rispetto delle regole. Questo costume rappresenta l'humus da cui é germogliato un sistema corruttivo che, rispetto alla prima Repubblica, ha solo modificato i suoi connotati: con una battuta, potremmo dire che mentre in passato i politici facevano affari, oggi gli affaristi fanno politica. L'inchiesta sulla Consip dimostra che serve una seria riflessione sulla crisi dei partiti che restano, comunque, il nerbo e il pilastro di una democrazia. Piaccia o no, i partiti sono un male necessario perchè, senza di essi, il paese rischia di essere alla mercè di predatori e magliari. Come diceva Enzo Biagi, anche i vecchi politici mangiavano, ma almeno sapevano stare a tavola.